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N. 3
agosto-ottobre 2002
numeri precedenti


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Dalla multicultura all’intercultura: Clara Silva, Educazione interculturale: modelli e percorsi, Edizioni del Cerro, Tirrenia (PI), 2002, pp. 204, €14,50

"L’intercultura si pone dunque una domanda: quella relativa a quale modello di uomo e di cittadino occorre oggi formare. Domanda a cui ne è connessa una seconda, circa la dimensione che tale soggetto è chiamato a vivere. Quella locale? Quella nazionale? Quella europea? Oppure quella planetaria?"

Il costante aumento di allievi figli di immigrati nella scuola italiana, esige una ridefinizione delle strutture scolastiche sia da un punto di vista burocratico che didattico, la messa a punto di un paradigma pedagogico inedito per la nostra realtà formativa, caratterizzata fino a pochi decenni fa da una certa omogeneità linguistica e culturale degli allievi. Ci troviamo di fronte a classi multiculturali nelle quali dobbiamo attuare una didattica interculturale, ma che cosa significhino veramente questi due aggettivi lo si dà in genere per scontato.

In effetti multiculturale e interculturale sono due termini spesso usati come sinonimi, ma in realtà non sono equivalenti, anzi fra i due esiste una differenza tale da connotare due approcci diametralmente opposti verso la questione dell’integrazione degli immigrati e dei loro figli nel paese di approdo. Multiculturale è infatti quella comunità (nazionale, scolastica, sociale) in cui sono presenti più popoli o etnie che tuttavia rimangono separati fra di loro, ognuno nella propria zona fisica e culturale e che raramente entrano in contatto; interculturale definisce invece un contesto relazionale in cui i vari gruppi linguistici e culturali stabiliscono fra di loro un costante rapporto dialettico di arricchimento reciproco fondato sul mutuo rispetto, sull’interesse per ciò che l’altro rappresenta o può rappresentare.

A ben guardare, le società multiculturali sottendono il forte etnocentrismo del gruppo dominante, che propugnando l’omologazione al proprio modello, cerca di assimilare le differenze, fino a cancellare o almeno rendere invisibile ogni manifestazione di alterità. In questo caso il contatto fra le varie etnie spesso si risolve in conflitto piuttosto che in dialogo perché in un gruppo emerge il desiderio di non soccombere culturalmente e questo può essere manipolato da leaders carismatici e senza scrupoli, pronti a sfruttare la rabbia e la frustrazione che serpeggiano nella comunità, per scopi tutt’altro che leciti. Al contrario, nelle società interculturali il gruppo dominante è il gruppo accogliente che individua e promuove strategie di incontro fra le culture in modo da creare occasioni positive di conoscenza reciproca e da valorizzare le differenze presenti al suo interno. In questo contesto il contatto fra le varie etnie è costante e produce un sistema di relazioni e di valori che si definisce proprio attraverso il confronto positivo fra le varie realtà culturali.

Questi sono solo alcuni dei concetti-chiave che vengono analizzati in Educazione interculturale: modelli e percorsi, il libro ancora fresco di stampa di Clara Silva, pedagogista esperta in intercultura dell’Università di Firenze. Partendo da una panoramica sulla storia e l’origine dei movimenti migratori a livello planetario, l’autrice mette in luce le responsabilità storiche dei paesi del Nord del mondo e quindi ci dà subito la dimensione della situazione che viviamo quotidianamente: non un’emergenza esclusiva del nostro paese e della nostra epoca, ma una realtà che interessa e ha interessato tutte le aree economicamente ricche del mondo, che ovviamente esercitano una forte attrattiva sui popoli del Sud del pianeta, economicamente più svantaggiati, a più riprese sfruttati e impoveriti. Il ruolo del gruppo dominante non può quindi essere ancora una volta improntato all’utilitarismo, come accade o è accaduto in altri paesi europei le cui politiche in materia di immigrazione rivelano la tendenza a considerare i lavoratori stranieri – e di conseguenza le loro famiglie – come una presenza temporanea tollerata a causa della pressante necessità economica di reperire manodopera per attività a cui gli autoctoni non vogliono più dedicarsi. Nel corso del libro si chiarisce in modo inequivocabile che il ruolo che noi italiani dobbiamo assumere nei confronti degli immigrati si caratterizza invece in base alla consapevolezza di condizionare la vita delle minoranze, il cui benessere dipende dalle nostre scelte, talvolta anche dalla nostra volontà di non scegliere e di non prendere posizioni. Il che, in una prospettiva più ampia, a livello sociale, di convivenza civile, ha risvolti che interessano tutti – autoctoni e immigrati – perché una società formata da gruppi che non hanno imparato a conoscersi e ad apprezzarsi per quello che sono, a lungo andare produce tensioni che non giovano a nessuno.

È in questa prospettiva che si evidenzia il nuovo compito della scuola come agenzia educativa. Compito che emerge fondamentale nella formazione di individui in grado di vivere e interagire positivamente in una società multiculturale e che proprio per questo deve basarsi sull’educazione interculturale. In questo senso i due aggettivi che abbiamo discusso sopra devono essere tenuti separati: il primo connota infatti l’assetto di superficie della nostro mondo, mentre il secondo indica il tipo di intervento eminentemente educativo da attuare per preparare a livello profondo – quello che interessa la morale e i valori - i futuri cittadini di questa nuova compagine sociale. Solo attraverso l’educazione interculturale si potrà raggiungere l’obiettivo di costruire una società interculturale. Sebbene questo compito non debba essere demandato alla sola istituzione scolastica (l’intercultura ha bisogno, per esempio, di essere promossa e sostenuta anche da opportune scelte politiche), la scuola si trova in una posizione cruciale proprio perché rappresenta uno dei più importanti crocevia di razze e culture del nostro mondo ed è chiamata quotidianamente a sciogliere emergenze relazionali e didattiche che troppo spesso sono state risolte solo grazie alla buona volontà degli insegnanti.

Il saggio di Silva si propone quindi come un utile strumento di riflessione a tutti coloro che come educatori cercano risposte operative per la gestione di gruppi plurilingue e multiculturali. Senza proporre ricette magiche, la lettura del testo mette al contrario in crisi la visione concettuale dell’uomo occidentale, aprendola alla scoperta e all’accettazione di nuovi sistemi culturali e preparandola all’incontro con l’altro, con il diverso, disponendo così l’educatore ad assumere quell’atteggiamento di apertura che prima di tutto gli sarà indispensabile nello stabilire l’atmosfera più appropriata all’interno del gruppo in cui si troverà ad operare.

Attraverso l’esposizione di recenti ricerche in campo pedagogico, filosofico e biologico, l’autrice sottolinea fra l’altro che l’educazione interculturale si rivolge prima di tutto agli autoctoni, i primi ad avvertire il bisogno di capire i loro compagni alloglotti. Questo ci ricorda subito il disorientamento dei nostri allievi italofoni all’arrivo in classe di un alunno straniero, quel misto di curiosità e di diffidenza con cui sempre guardano il nuovo arrivato, di cui spesso non solo non capiscono la lingua, ma neanche gli usi e i costumi. Come potranno accettare e integrare il coetaneo straniero, se non sono in grado di entrare in contatto con lui? Le pedagogia interculturale dunque non deve limitarsi alla pedagogia speciale attuata per gestire l’emergenza né deve attenersi a un modello compensatorio per aiutare gli allievi immigrati ad assumere il modello dominante, ma deve rivolgersi a tutta la classe e deve partire dall’insegnante-educatore, anzi dall’intero corpo degli operatori scolastici.

Nel corso di questa disamina teorica ci imbattiamo poi nell’assunto – desunto dai moderni studi in campo biologico - che "in natura la differenza è la regola piuttosto che l’eccezione" e questo ci porta a domandarci perché l’eterogeneità delle nostre classi ci spaventi tanto se riflette l’ordine naturale, ma poi, riflettendoci sopra, ci accorgiamo che la nostra nostalgia per la vecchia e sicura omogeneità del passato rispecchia solo un’illusione sostenuta dal desiderio di ridurre tutto e tutti a uno stesso modello. In un paese linguisticamente e culturalmente variegato come il nostro, l’omologazione appare più che mai un ideale inadeguato e inattuabile che non può soddisfare le esigenze formative di una popolazione scolastica che – sembriamo averlo dimenticato con fin troppa facilità – ha già dovuto fare i conti con le migrazioni interne, per esempio quelle dal Sud al Nord industrializzato.

Il paradigma educativo che l’autrice propone si rifà all’ermeneutica e al decostruzionismo, termini che a prima vista possono spaventare i non addetti ai lavori, ma che, attraverso la scomposizione e l’analisi del sistema culturale e valoriale occidentale, offrono semplicemente un quadro teorico di riferimento completamente pervaso da un’ intenzionalità etica, critico rispetto al modello esistente, quest’ultimo non più dato per scontato, il che si risolve infine nella capacità di decentrarsi, di non arroccarsi più sulle proprie posizioni di supposta supremazia, per esplorare i margini e trovare nuove indicazioni operative. Questo porta, solo per citare un esempio, a riconoscere la prospettiva unidirezionale dei nostri curricoli scolastici, basati sulla sola visione nazional-occidentale del sapere e a rendersi conto di quanto questo possa sottilmente incoraggiare la discriminazione e di conseguenza favorire l’insuccesso scolastico con tutto ciò che questo significa in termini di disagio e devianze giovanili. Presentando una tradizionale lezione – diciamo - di Storia in una classe plurilingue, spesso ci accorgiamo che gli allievi immigrati, pur avendo una discreta competenza linguistica, presentano difficoltà di comprensione apparentemente inspiegabili, che probabilmente potrebbero essere risolte offrendo una visione disciplinare che tenga conto del loro punto di vista.

I modelli finora attuati e di cui Silva rende conto nel terzo capitolo, purtroppo sembrano in varia misura ancora lontani dal realizzare una vera e consapevole pedagogia interculturale; tuttavia il conoscerli ci aiuta a renderci conto di quanto ancora si può fare e della direzione da dare al nostro operato: la scuola, come maggiore agenzia formativa, deve aprire i propri bastioni culturali e ideologici per confrontarsi e integrarsi con l’alterità che gli alunni stranieri rappresentano, ma al tempo stesso deve aprire anche le proprie porte fisiche verso l’esterno perché l’educazione interculturale si realizza anche in sinergia con altre istituzioni e associazioni presenti sul proprio territorio.

Infine, come insegnanti di lingua, ci piace ricordare che la competenza interculturale, componente indispensabile della competenza comunicativa a cui tendono tutti i curricoli linguistici contemporanei, fra persone che non condividono la stessa lingua e cultura materne, presuppone prima di tutto la disponibilità reciproca ad andarsi incontro e a negoziare i significati culturali che la lingua veicola. In questa prospettiva nessuno dei parlanti deve adeguarsi al sistema dell’altro, al contrario ognuno – e soprattutto il nativo rispetto al non-nativo – deve essere disponibile a trovare un terreno comune per far sì che la comunicazione si realizzi a pieno. Se da un lato è praticamente impossibile insegnare una completa competenza interculturale per l’enorme varietà di situazioni in cui essa può manifestarsi, dall’altro si può invece educare alla disponibilità comunicativa attraverso strategie didattiche che favoriscano l’instaurarsi di una mentalità aperta ai punti di vista che potrà essere di grande aiuto per l’acquisizione di una vera competenza interculturale. Il che, in ultima analisi, non può che tornare utile anche agli allievi autoctoni, che si preparano a vivere nell’era dell’unificazione europea e della globalizzazione: non più solo cittadini di uno stato nazionale, ma di una federazione di stati e in ultimo del mondo intero.

Fiorenza Quercioli

 

© Didattica & Classe Plurilingue 2002