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Giocare a un'altra lingua
C. Humphris, M. De Carlo, English through play,
Anicia, Roma, 1994, pp. 66.
Ci sono due tipi di libri familiari
allinsegnante di lingue. Uno è il "corso di lingua", il libro di testo,
quel tipo di libro cioè che mette in fila con un certo ordine il che cosa fare e
il quando farlo, mostra come farlo e spiega o dovrebbe spiegare il perché,
vale a dire le ragioni linguistiche, psicolinguistiche e pedagogiche per cui si sono
decisi quei contenuti e quelle procedure didattiche. Il ragionevole accordo fra questi
aspetti - il sillabo, il metodo e le tecniche, l'approccio - è ciò che dovrebbe
costituire il banco di prova della coerenza, almeno, di un libro di testo. Se hai cento
ore da passare con la tua classe, il libro ti dice come puoi impiegarle, annunciandoti non
solo un certo tipo di percorso didattico, ma anche una concezione della lingua,
un'immagine dell'insegnante e dello studente, un'idea di educazione, insomma una certa
compiutezza del tutto. Linsegnante e i suoi studenti, se sono daccordo con
lautore, se si trovano bene con le sue indicazioni, non hanno che da seguire il
libro, e il più in molti casi è fatto. Naturalmente poi non è sempre così:
linsegnante prende un po da un testo, un po da un altro, aggiunge del
suo, forse si espone e dà spazio a ciò che viene fuori dagli studenti e via dicendo. E
se ha buone ragioni per farlo, se riesce a costruirsi in questo modo una sua coerenza, va
bene così. Una riserva generale, a mio parere legittima, verso i libri di testo (al di
là di quelle, specifiche, che si possono nutrire verso questo o quel
libro), e che spesso spinge a utilizzarne più di uno o a non utilizzarne affatto, è
infatti che in genere prefigurano il corso di lingua come una sorta di autostrada:
vogliono essere la via più breve, sicura e "servita" per arrivare a
destinazione. Tutto è previsto e predisposto: le situazioni, le tematiche, le intenzioni,
le strutture e il lessico sono tutte lì, non c'è che da trasmetterle e farle imparare.
Le attività perciò non somigliano tanto a esperienze da far vivere, da cui ciascuno
trarrà ciò che vuole e può trarre, ma a passaggi obbligati. Il tragitto del gruppo e
dei singoli studenti, con i suoi imprevisti, i suoi tempi sfalsati, la sua potenziale
ricchezza e avventurosità, è così regolamentato da tabelle di marcia, caselli, corsie
preferenziali, minimi e massimi di velocità, stazioni di servizio, spuntini
all'autogrill, oleandri. Tutto un panorama stereotipato in cui transitare. La presenza di
tanti cervelli e sistemi linguistici diversi al lavoro, tanti quanti sono gli studenti,
non è più una risorsa, è una complicazione da liquidare, un pedaggio da pagare. Ma
questo è un altro discorso (non dico che si dovrebbero abolire i libri di testo; dico
solo che andrebbero maneggiati con cautela, concedendosi ogni tanto il diritto di
ripensarne la funzione dominante).
Il secondo tipo di libro è quello che si
potrebbe definire "ricettario", se non fosse che il termine non suona certo come
un complimento (almeno ai nostri orecchi di insegnanti che hanno imparato a diffidare,
appunto, delle "ricette"). Eppure rende piuttosto bene l'idea, e in fin dei
conti l'Artusi ha un posto d'onore non solo sugli scaffali delle cucine. Si tratta infatti
di quei repertori di attività pensati per integrare i libri di testo o i cicli di lezioni
che ci saremo costruiti da soli, non sostituirli. In questo senso non ci si dovrà
aspettare da questi testi un percorso orientato, equilibrato e compiuto, bensì proposte e
idee da selezionare e inserire eventualmente, a ragion veduta, nell'impianto e nella
programmazione delle proprie lezioni. Eppure un filo conduttore in questi
"ricettari", di cui non si può non apprezzare lo sforzo e l'abbondanza di
fantasia, c'è, e dichiarato. Talvolta è rappresentato dall'abilità al cui sviluppo le
attività ideate sono rivolte. Avremo così un libro che contiene, per esempio, cento
attività per lavorare sulla grammatica, un altro che ne ha altrettante per la produzione
orale, un altro ancora sulla scrittura, sul lessico e così via. Altre volte invece il
filo conduttore è meno, per così dire, scolastico. Ci saranno perciò libri che
propongono attività magari mirate a obiettivi diversi ma con un denominatore comune, per
esempio il riproporsi di essere "divertenti", l'implicare sistematicamente il
movimento fisico, l'utilizzare solo immagini o suoni come input, o ancora che suggeriscono
mille modi per sfruttare in classe la poesia, la musica, e la lista potrebbe allungarsi.
Curiosamente, infine, sono a volte proprio questi "ricettari" - cui alcuni
rimproverano di dare un'immagine un po' troppo disinvolta e semplificata
dell'insegnamento/apprendimento linguistico - a propugnare un'idea pedagogica forte e
trasparente.
Libri di questo tipo non è che nel mercato
italiano abbondino. Uno dei rari esempi è dato appunto da quello che vorrei invitarvi a
leggere (uno dei suoi autori è infatti inglese e pedagogista di formazione). Si intitola English
through play, ma è scritto in italiano, e il sottotitolo è "50 giochi per
l'insegnamento dell'inglese nella scuola elementare", ma, come vedremo, è
tranquillamente utilizzabile anche per l'insegnamento dell'italiano. In libreria non lo
troverete molto facilmente sugli scaffali, ma potete ordinarlo, anche direttamente alla
casa editrice Anicia (il telefono è 06-5894742, rispondono persone gentili e
disponibili). Il prezzo, quando l'ho preso io, ma qualche anno fa, era di 15.000 lire.
Quello che questo libro ci dice in parte non
è una novità, o almeno non è qualcosa che oggi dovrebbe trovare molti oppositori di
principio. E cioè: imparare una lingua può essere divertente; il divertimento è fonte
di energia; l'energia è indispensabile per raggiungere obiettivi seri; i giochi sono
perciò un ottimo mezzo per imparare una lingua; sono anche dei rituali, e una
caratteristica dei rituali è quella di risvegliare le energie e incanalarle - nel nostro
caso verso obiettivi di apprendimento - proprio attraverso lo sfogo delle tensioni che in
essi si realizza; i bambini (dicono gli adulti, e almeno in questo caso i bambini sono
daccordo) richiedono, cognitivamente e di fatto, di giocare per svilupparsi,
crescere, imparare, imparare anche un'altra lingua. Di giocare a un'altra lingua.
Ma ci sono, anche e soprattutto, diverse
cose non scontate che questo libro dice e invoglia a mettere in pratica. Cose, almeno, che
a volte si scordano o trascurano. Ne propongo alcune: i giochi sono un mezzo serio per
fare nuove esperienze, o rifare esperienze note, in una nuova lingua; un mezzo serio
perché vincolato da regole condivise lealmente, non perché noioso o "adulto";
i giochi per imparare una lingua dovrebbero essere giochi veri, cioè giochi a cui si può
giocare con gusto anche una volta usciti di scuola; anche linsegnante può
divertirsi insegnando, anzi, dovrebbe divertirsi insegnando, e questo può avvenire solo a
patto che creda alla serietà del gioco, delle sue regole, dei suoi obiettivi (tanto più
che il primo passo per assicurarsi che i bambini abbiano capito bene il meccanismo di un
gioco, dicono gli autori, è che l'insegnante stesso giochi e dimostri il gioco); i giochi
non sono dunque un modo per alleggerire le lezioni, ma semmai una fonte di ispirazione per
tutto l'insegnamento: nei giochi sono infatti i bambini, in larga parte, a controllare
quello che accade in classe (sono, per esempio, coinvolti direttamente nell'organizzazione
dei giochi, nello spostamento di banchi e sedie), diventano soggetti, non sono più, come
troppo spesso accade, oggetto di insegnamento; i giochi, proprio in virtù
dell'allentamento delle tensioni che riescono a produrre, sono forse il terreno migliore
in cui l'insegnante può dimostrarsi più esigente, nel far rispettare sia le regole sia,
perché no?, una certa correttezza linguistica; nella competizione ludica i bambini si
abituano a sdrammatizzare e accettare gli insuccessi; nei giochi i bambini - che
conservano ancora un legame magico con le parole - hanno la prova che la nuova lingua
"funziona", cioè produce degli effettivi cambiamenti nel mondo, "si vince
o si perde", e "chi perde vince lo stesso", e, quel che più conta, hanno
la prova che quella lingua funziona in mano loro.
Christopher Humphris e Maddalena De Carlo
hanno inventato o reinventato cinquanta giochi per consolidare, ma anche presentare,
contenuti linguistici ad alunni della scuola elementare. Si tratta naturalmente, come
dicevo, di contenuti linguistici dellinglese. Troverete quindi alcuni giochi
costruiti su tratti o scogli tipici di questa lingua. Ci sono per esempio sei giochi per
lo spelling, notoriamente arduo per l'inglese. Il fatto che per l'italiano il passaggio
allo scritto lo sia in misura diversa e minore non significa però che sia un'impresa di
poco conto per i piccoli "neoitaliani". Anche a leggere alla svelta, comunque,
non credo che troverete neanche un solo gioco che non sia direttamente adattabile
all'italiano. Fra i contenuti linguistici proposti ci sono infatti - per usare le
categorie grammaticali cui gli autori, pur non "grammaticalisti",
ragionevolmente e soprattutto ad uso degli insegnanti non si sottraggono - i verbi
ausiliari, i numeri, il presente e il passato, le preposizioni, l'imperativo. Naturalmente
questi contenuti non sono presentati integralmente, ma attraverso l'invito ad usarne
esponenti funzionali allo svolgimento dei giochi. Ci sono poi anche alcuni giochi per far
crescere e consolidare il lessico, in particolare quello relativo al linguaggio della
classe, e altri per sviluppare le abilità di studio o che richiedono "l'uso di
saperi presi a prestito da altre materie scolastiche". Ogni gioco può essere infine
un modello per costruirne altri, variando i contenuti linguistici oppure modificando altre
caratteristiche, come l'ambientazione, il tipo di interazione (coppie, gruppi,
partecipazione individuale, classe intera insieme all'insegnante) o la disposizione
dell'aula. È una mentalità che si cerca di incoraggiare, nellinsegnante, una
mentalità mobile e attenta ai dettagli, quale i giochi richiedono, e che può essere
introdotta con successo in tutti i momenti dell'insegnamento. Anche quando non si gioca,
il clima ritualistico dei giochi, la loro concretezza di esperienze sia pure simboliche,
la collaborazione di gruppo, l'insuccesso neutralizzato e condiviso come uno degli esiti
possibili, anche quando, come direbbero alcuni, "si studia", aspetti come questi
dovrebbero, credo, essere tenuti fermi.
Questo libro è pensato, anche, per
alleggerire all'insegnante (di inglese) il lavoro di preparazione delle lezioni. In mano a
un insegnante di italiano, credo, può essere in aggiunta un'occasione per divertirsi a
escogitare delle versioni italiane dei tanti giochi.
Se qualche insegnante pensa che "i
giochi, sì, vanno bene, ma ci vuole un sacco di tempo a organizzarli", gli autori
del libro hanno pronti dei consigli per ridurre questo tempo al minimo. Ogni gioco è
corredato da precise istruzioni su come modificare, eventualmente, la disposizione
dell'aula (la descrizione dei giochi è sempre accompagnata da una piantina) e su come
formare i gruppi. Non solo: per far eseguire le operazioni senza fare troppo rumore si
suggerisce di ricorrere a questo ulteriore gioco-espediente: "una spia pericolosa ha
messo dei microfoni segreti nell'aula e i bambini devono essere estremamente silenziosi
per non rivelare ciò che stanno facendo".
Come si immaginerà, la lingua messa in
gioco in queste proposte didattiche è innanzitutto la lingua che serve per svolgere i
giochi medesimi e che corrisponde più o meno a quella che i bambini incontrano nei primi
tempi di studio della lingua. Tuttavia, l'impegno che i bambini vi profondono e il piacere
che ne ricavano può forse rappresentare un buon viatico per affrontare esperienze
comunicative e di apprendimento più complesse. Ogni esperienza piacevole lascia dietro di
sé una traccia che viene conservata nelle esperienze successive, anche in quello dove
magari il piacere intrinseco risulti magari minore o meno evidente.
La maggior parte dei giochi proposti prende
sul serio un'idea che va diffondendosi fra i linguisti: vale a dire che la lingua si
acquisisce a "pacchetti" lessicali grammaticalizzati, e non, per così dire,
mettendo insieme parole grazie a una sorta di cemento grammaticale. "Lo
strutturalismo asseriva che l'apprendente, facendo proprie le 'regole' del sistema, era
poi in grado di generare frasi corrette. Sembra ora plausibile che una parte importante
dell'acquisizione della lingua sia la capacità di produrre frasi lessicali come insiemi
non analizzati o 'pezzi di lingua pronti all'uso' (chunks) e che queste unità
divengano i dati grezzi sui quali l'apprendente comincia a percepire strutture, morfologie
e tutti quegli altri tratti della lingua tradizionalmente intesi come 'grammatica'.
All'interno di un modello simile, le frasi sono la risorsa principale che consente di
dominare il sistema sintattico" (M. Lewis, The Lexical Approach, LTP, 1993).
Attenzione però a non confondere queste "unità" con quelle frasi stereotipe,
poco naturali e attendibili, ancora così presenti nell'insegnamento linguistico
elementare; quelle, per intendersi, fatte apposta per illustrare e far memorizzare
strutture grammaticali (Lei è una professoressa/Lei è la mia
professoressa di matematica). Le "frasi" da prendere in
considerazione saranno piuttosto quelle espressioni archetipiche proprie dei vari contesti
e sottocontesti naturali di vita, e che riflettono immediatamente un significato
pragmatico non equivoco e accettato da un nativo come espressioni istituzionalizzate. Nel
nostro libro di giochi si trovano infatti enunciati come - in versione italiana - oggi
com'è il tempo?, e questo di che cosa è fatto?, com'è in italiano
x?, che dovrebbero rendere l'idea di cosa sono queste unità significative da proporre
così come sono, non analizzate nei loro componenti, all'uso e agli archivi mentali degli
alunni.
I giochi contenuti in questo libro, come ho
detto, sono cinquanta. Proverò a raccontarne uno. E sceglierò l'ultimo, che è un po'
diverso da tutti gli altri; il più audace, qualcuno dirà. Una cosa che spesso si reputa
difficile con gli apprendenti giovanissimi è il discorso esteso (temendo che si
smarriscano, si annoino, partano per la tangente), e proprio a una iniziazione alla
comprensione del discorso orale esteso è destinata l'attività con cui il libro prende
congedo dal lettore. Sottolineerei intanto la parola "comprensione". Ai bambini
si propone infatti di iniziare a capire, non a produrre, un discorso naturale, dunque di
una certa lunghezza e complessità. Dico questo, che sembra una banalità, perché a volte
si pensa erroneamente che chi non riesce che a dire poche frasi, non possa stare lì ad
ascoltarne utilmente un mucchio (e quando dico utilmente, intendo cavandone un qualche
senso). Invece la dimensione ricettiva è per sé importante: è attraverso ripetute
esposizioni alla lingua naturale che si acquisisce il senso, "semantico" e
"grammaticale", della lingua. Naturalmente limportante è che non si
richieda ai bambini una comprensione completa del discorso, e non si voglia poi magari
testarne l'esattezza. Sarà invece sufficiente trovare un modo per tenerli impegnati
nellascolto, nel tentativo di ricavarne un senso, sia pure limitato, il loro, quello
di ciascuno di loro. Il modo che Christopher Humphris e Maddalena De Carlo hanno
escogitato è questo. Si parte da una favola, Cappuccetto Rosso. L'insegnante divide i
bambini in gruppi di 9, quindi assegna a ognuno dei primi 9 bambini una parola (o gruppo
di parole) della favola. Parole o gruppi di parole come Cappuccetto Rosso, il
lupo, il cacciatore, porta, torta, alza tu il paletto, bottiglia
di vino ecc. Poi assegna le stesse parole a ognuno dei secondi 9 bambini e così via.
Se i bambini non sono tanto numerosi, si farà un solo gruppo. Se sono davvero pochini,
meno di 9, si daranno meno parole, o magari se ne daranno un paio ad ogni bambino.
L'importante è che le parole assegnate non siano troppe o troppo poche (9 sembra agli
autori un numero giusto). Durante la prima assegnazione delle parole, l'insegnante le
scrive alla lavagna, le traduce e le fa ripetere in coro. A questo punto l'insegnante
comincia a leggere ad alta voce il racconto, con espressione, e "ogni volta che un
bambino sente e riconosce la propria parola si alza in piedi, fa un giro di 360° e si
siede di nuovo". Come si vede il meccanismo di questo gioco, così come quello di
tutti gli altri, è semplice; ma non sarà un guaio se all'inizio, per dare un po' una
mano, l'insegnante dovrà mettersi lei/lui ogni tanto a roteare.
Leonardo Gandi
Email leonardogandi@libero.it
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