Fai conoscere questo bollettino ad amici.

sunbul3d.gif (118 byte)sunbul3d.gif (118 byte)sunbul3d.gif (118 byte)

Se vuoi ricevere un avviso a ogni nuova uscita del bollettino clicca qui.

N. 2
giugno-luglio 2002
numeri precedenti


blank.gif (43 byte)
blank.gif (43 byte)

La storia di Monia e Fatima (e delle loro insegnanti): un problema interculturale
Fiorenza Quercioli

Riportiamo di seguito un’esperienza di cui siamo stati testimoni diretti e in cui abbiamo dato un modesto contributo nel corso dell’anno scolastico appena conclusosi. Per ovvi motivi di riservatezza, i nomi delle due allieve sono stati cambiati mentre le insegnanti saranno identificate solo tramite il loro ruolo.

Le insegnanti erano davvero sconcertate: le loro alunne di terza media, Monia e Fatima, entrambe marocchine, sembravano davvero interessate a proseguire gli studi, ma interrogate su quale scuola superiore avrebbero scelto, dichiaravano di non voler continuare a studiare. La contraddizione era stridente e d’altra parte le insegnanti conoscevano abbastanza bene le famiglie per capire che doveva esserci sotto un qualche divieto proveniente dall’ortodossia religiosa e dall’attaccamento alle tradizioni nazionali che i genitori avevano più volte dimostrato e che probabilmente censurava anche i desideri più normali delle bambine.

Monia a Fatima, ciascuna a suo modo, erano entrambe alunne dotate di un’intelligenza brillante e il loro rendimento scolastico premiava gli sforzi iniziali delle docenti che si erano adoperate per insegnar loro la lingua italiana e per farle integrare a pieno titolo con i compagni di classe. Le insegnanti si sentivano quindi orgogliose del loro lavoro, ma nel corso degli ultimi anni avevano anche imparato a conoscere la cultura islamica di cui le loro alunne facevano parte, e sapevano che nel mondo arabo il posto della donna è in casa per cui intuivano che il diniego delle ragazze doveva avere radici culturali più che sinceramente personali. Proprio questa percezione le irritava, loro malgrado, oltre modo. Non ritenevano giusto nutrire ostilità nei confronti delle famiglie delle alunne, si consideravano persone prive di pregiudizi e nonostante le difficoltà iniziali di comunicazione, avevano sempre cercato di improntare i rapporti con i genitori, di qualunque etnia essi fossero, al rispetto reciproco, per cui, adesso, oltre ad avere un problema che come educatrici sentivano di dover risolvere, dovevano gestire anche certi sentimenti negativi che sentivano emergere nei loro cuori.

Discutendo fra di loro la questione, le due insegnanti si sono rese conto che il tema della libertà di scelta per le stesse donne italiane è una conquista abbastanza recente e ancora oggi, purtroppo, non sempre e ovunque assodata. Non c’è bisogno di andare indietro di ere geologiche per rendersene conto: fino al secondo dopo-guerra, neanche le donne italiane potevano facilmente decidere di studiare e la possibilità di fare degli studi superiori era appannaggio di poche. Poche di noi infatti hanno madri con un titolo di studio di scuola superiore e molto spesso il confronto fra la nostra vita e quella delle nostre madri è stridente. Ecco che la situazione in cui si trovavano le loro allieve richiamava nelle insegnanti, laureatesi negli anni ’70, situazioni personali e sociologiche non ancora del tutto definite: all’improvviso riaffioravano le loro lotte giovanili e non tanto per conquistarsi il diritto di studiare, quanto per poter realmente aspirare fuori e dentro le mura domestiche alle stesse opportunità riservate ai loro coetanei.

D’altra parte, riflettendoci bene, le due insegnanti capivano anche che nella storia di un popolo cinquant’anni sono un tempo piuttosto esiguo per stabilizzare un cambiamento sociale epocale, come quello prodotto dal movimento femminista, che non ha solo promosso l’emancipazione delle donne, ma ha anche stravolto i ruoli tradizionali all’interno delle nostre famiglie, rigettando l’assetto sicuro del passato, in cui ognuno sentiva di avere un posto ben definito, anche se per le donne questo rappresentava una limitazione. Dopo il movimento femminista a tutti si è imposta la ricerca di un nuovo equilibrio, sia a livello sociale che personale, e nonostante l’apparente "modernità" di cui facciamo volentieri sfoggio, questo processo è per certi aspetti ancora in corso. La discussione ha condotto quindi le nostre protagoniste ad affermare che il tema della autonomia decisionale è un punto sensibile nella personalità di ogni donna italiana, almeno di una certa generazione, e certo tutti noi – uomini e donne - potremo trovare conferme a questa asserzione nella nostra esperienza personale.

Quello che si preannunciava quindi non era solo un’urgenza formativa, ma anche uno scontro culturale fra le famiglie islamiche e le insegnanti italiane; questo scontro nasceva dal confronto fra due modelli culturali diversi e dal fatto che le rappresentanti della cultura italiana, più o meno consapevolmente, si trinceravano dietro a un modello di cui andavano fiere e su cui non erano disposte a discutere proprio perché dietro alle conquiste raggiunte si annida ancora una certa insicurezza che spesso spinge le donne alla difesa strenua della loro nuova posizione nella società.

Prima di proseguire nella narrazione, è doveroso ricordare che le due docenti capivano molto bene che da un punto di vista antropologico ogni modello culturale rappresenta di per sé una risposta che un popolo dà ad un problema esistenziale o socio-economico: il modello culturale che codifica i ruoli maschile e femminile, per esempio, risponde all’esigenza di organizzare in modo efficiente la vita della famiglia, nucleo basilare di certe società. La cultura – ossia l’insieme dei modelli – rispecchia quindi la storia del popolo che la ha prodotta, ma alla sua elaborazione possono concorrere anche altri elementi e infatti in alcuni modelli culturali si possono talvolta rintracciare anche motivazioni legate al clima o alla geografia della regione in cui il popolo in questione vive. Nello sviluppo dei modelli culturali, un ruolo fondamentale viene poi svolto dalla religione per cui molto spesso certi costumi si sviluppano in armonia con il codice religioso dominante, mentre in altri casi, per sancire l’importanza di un certo modello, questo viene assunto a norma religiosa: la religione musulmana è ricca di ben note prescrizioni che riguardano proprio le donne, ma non potremo dire che la religione cattolica, prevalente in Italia, non proponga altrettanto.

Per tutto quello che abbiamo detto sopra è ovvio che in senso strettamente antropologico un modello culturale è degno di per sé, non ne esiste in sostanza uno migliore di un altro perché tutti danno risposte a problemi basilari dell’esistenza, a questioni proprio per questo definite "di natura". Il che non significa che in seguito a mutamenti storici e sociali, questi bisogni non possano cambiare nel corso degli anni e che un popolo o singoli individui, possano mettere in crisi i propri modelli e elaborarne di nuovi. Quest’ultimo è il caso della nostra cultura che dopo alcuni avvenimenti politici (la fine della dittatura e l’instaurarsi della democrazia) e sociali (l’industrializzazione e un più diffuso benessere economico) ha ritenuto che il modello di famiglia tradizionale non fosse più accettabile e attraverso una serie di conflitti e tensioni sta progressivamente sviluppando un nuovo modello. Ma nel mondo arabo le cose vanno diversamente e di questo dobbiamo tenere conto ricordando che probabilmente poche donne dell’epoca pre-femminista hanno osato pensare di poter organizzare la propria vita in maniera diversa da come la loro cultura di riferimento imponeva loro di fare perché la censura era pressoché totale e l’ostracismo assai difficile da sopportare.

Ma ritorniamo a Monia e Fatima. Dopo varie discussioni e vari tentativi di parlare con le famiglie che di fronte all’argomento degli studi futuri delle figlie si chiudevano in sé stesse rifiutando di parlare se non a monosillabi, la decisione presa è stata quella di far intervenire una mediatrice culturale marocchina che affrontasse il problema con le bambine e con le famiglie, parlando la loro stessa lingua e non la lingua dell’immigrazione, come giocoforza le insegnanti dovevano fare. Chi di noi si è trovato a vivere all’estero, anche per brevi periodi e non come immigrato, sa che, per quanto si possa essere competenti nella lingua locale, in situazioni difficili trovare qualcuno con cui possiamo comunicare parlando la nostra lingua madre allenta, almeno in parte, la tensione e ci dà subito la sensazione che ci capisca di più.

La scelta è caduta su una donna piuttosto che su un rappresentante maschile della cultura araba perché si è ritenuto che una donna potesse essere già di per sé un valido esempio di un cambiamento che poteva prodursi all’interno della cultura araba e che poteva coinvolgere anche le due allieve in questione. La mediatrice che è intervenuta è infatti una giovane signora in possesso di un titolo di studio di scuola superiore e vive nel nostro paese da un tempo sufficientemente lungo per poter dire di aver fatto un confronto armonioso fra la sua e la nostra cultura sottolineando con la sua sola presenza che la cultura araba non è necessariamente un blocco monolitico inscalfibile.

Sono stati programmati due incontri: uno fra la mediatrice e le allieve e il secondo fra la mediatrice e i genitori dell’una e dell’altra studentessa. Entrambi gli incontri prevedevano una prima fase in cui le insegnanti erano presenti al colloquio e una successiva in cui le insegnanti uscivano.

I risultati di queste conversazioni sono stati sorprendenti per le nostre insegnanti, un po’ meno per la mediatrice, naturalmente.

Di fronte alle insegnanti Monia e Fatima hanno ribadito il loro rifiuto di continuare a studiare motivandolo con la mancanza di voglia di passare altro tempo sui libri; una ha dichiarato addirittura di volersi sposare presto, ma significativamente nessuna delle due ha detto di preferire la vita lavorativa alla vita da studentessa. Una volta uscite le insegnanti, di fronte alla signora marocchina, le due ragazze in lacrime hanno dichiarato quello che tutti sospettavano, ossia che avrebbero tanto voluto fare come lei, studiare e trovare un lavoro e poi vedere come continuare, ma sapevano con assoluta certezza che le famiglie non avrebbero mai accettato questa loro decisione. La mediatrice, dal canto suo, le ha consolate come poteva e ha assicurato che avrebbe parlato con i genitori e avrebbe provato a convincerli a cambiare idea sul loro futuro.

Ai colloqui successivi, come era del resto prevedibile, si sono presentati soltanto i padri: le madri erano a casa ad occuparsi degli altri figli e dei lavori domestici, nella cultura araba è il padre che deve occuparsi delle relazioni con il mondo esterno. Non dimentichiamo che in molte famiglie arabe, spesso le madri non parlano Italiano o lo parlano appena ad un livello di sopravvivenza proprio perché non hanno abbastanza rapporti con gli italofoni da sviluppare una vera competenza comunicativa.

Entrambi i padri si sono confermati completamente contrari all’idea di far continuare gli studi alle proprie figlie perché non lo ritenevano appropriato per delle ragazze. Uno ha ammesso di aver già individuato un promesso sposo per la propria figlia, l’altro di fronte alla prospettiva accennata dalla mediatrice che la figlia avrebbe anche potuto sposare un italiano, ha asserito che la avrebbe piuttosto uccisa.

Informate dalla mediatrice di quanto emerso nella sua opera di mediazione, le insegnanti si sono sentite più scoraggiate che mai. Cosa avevano ottenuto, in fin dei conti? Sapevano per certo che le loro allieve avrebbero voluto intraprendere gli studi superiori, ma erano ormai altrettanto certe che questo non sarebbe stato loro permesso. Ben lungi dal trovare una soluzione soddisfacente per tutti, si sentivano ancora più impotenti e arrabbiate.

Situazioni come questa non sono rare nelle nostre scuole dell’obbligo e chi scrive le ha sentite riferire spesso da insegnanti che non si conoscono neanche e lavorano in plessi e istituti molto distanti fra di loro. Che risposta possiamo quindi dare come educatori di fronte a un problema così delicato? Dobbiamo forse ritenere che il nostro compito si esaurisca con l’insegnamento della lingua seconda e metterci l’animo in pace?

Va detto prima di tutto che un insegnante di lingua che si rispetti non deve limitare la sua opera alla semplice trasmissione dei contenuti linguistici. In quanto specchio del popolo che la parla, la lingua è di per sé inscindibile dalla cultura per cui con la lingua si fa sempre passare anche un contenuto culturale. Ma un buon insegnante promuoverà nei suoi allievi anche una riflessione culturale che lo porti a confrontare i propri modelli con quelli del popolo di cui sta cercando di imparare la lingua. Il che non significa che l’allievo dovrà assumere modelli culturali che non gli si confanno, ma che dovrà provare a porsi in rapporto dialettico con i contenuti culturali nuovi, cercando le somiglianze e le differenze con i propri valori, fino a sviluppare un vero relativismo culturale che gli permetta di adottare i modelli a lui più congeniali senza cadere in pericolose frustrazioni.

Sembrerà strano, ma tutto questo è vero anche per l’insegnante, anzi è più vero perché l’insegnante è un adulto e quindi dovrebbe essere più in grado di mettersi in rapporto con la realtà in modo dialettico. Quello che molto spesso si tende a sottovalutare è il fatto che anche noi insegnanti, lavorando con alunni stranieri, ci troviamo a confrontarci con un’altra cultura - quella dei nostri allievi – e che il relativismo culturale che cerchiamo di incoraggiare nei nostri studenti dobbiamo promuoverlo prima di tutto in noi stessi.

Alla fine le insegnanti della nostra storia hanno capito che il loro compito educativo era prima di tutto quello di far vedere a Monia e a Fatima – e naturalmente alle loro famiglie – che esiste anche un altro modello culturale riguardo al ruolo delle donne nella società, ma che non devono sottolinearlo eccessivamente o mostrare disapprovazione verso le posizioni delle loro allieve e dei loro padri. Non c’è nessuna crociata da fare e nessuno assicura che il modello italiano sia migliore, anzi qualcuno potrebbe addirittura pensare il contrario. Nessuna cultura è più degna di un’ altra: lo abbiamo annunciato in sede teorica, è venuto ora il momento di ricordarlo e tradurlo in pratica.

In secondo luogo insistere per instillare nelle due bambine un precoce seme di ribellione sarebbe controproducente, se non devastante, proprio per le due allieve in questione. Cosa dovrebbero fare con i loro padri? Perché spingere due adolescenti verso una battaglia difficile da sopportare (e da vincere) anche per un adulto? Siamo proprio sicuri che questo sarebbe un bene per loro? L’adolescenza è già di per sé un momento così critico dell’esistenza che appesantirlo con problemi così grossi risulterebbe alla lunga dannoso perché le allieve potrebbero non essere preparate ad affrontarli. Ricordiamo che le donne italiane hanno "deciso" di ribellarsi proprio negli anni ’70, anche perché erano ampiamente sostenute in questo loro processo di liberazione dalla società, o almeno da una parte consistente di essa. Se in un momento qualunque le ragazze arabe mostreranno di aver preso consapevolezza della situazione e chiederanno aiuto all’istituzione scolastica, è chiaro che cercheremo di fare il possibile, ma senza mai perdere di vista la realtà in cui le ragazze vivono e di cui fanno parte.

Per adesso può bastare che Monia e Fatima abbiano capito che esiste anche un altro modello culturale e che abbiano capito che noi, insegnanti e italiane, siamo interessati a conoscere il loro e che lo rispettiamo per quello che è. Questi sono gli obiettivi che dobbiamo prefiggerci e raggiungere di fronte a situazioni di tensione interculturale: far vedere che esistono più modelli (quindi più risposte allo stesso problema), che tutti sono sullo stesso piano e che noi stessi crediamo in questo perché rispettiamo le differenze. Questo à quello che dovrebbe passare anche agli altri alunni, agli italofoni, anche loro adolescenti, anche loro spesso messi di fronte a sistemi di valori sconosciuti, apparentemente assurdi, e che non sanno decifrare.

Un giorno Monia e Fatima cresceranno e forse saranno in grado di fare le battaglie che tutte noi abbiamo già fatto, con tanto dolore e quando i tempi sono stati maturi per farle. Abbiamo la presunzione di credere che il rispetto e la considerazione del valore delle culture altrui che abbiamo cercato di insegnargli le aiuteranno nel loro cammino esistenziale.

Email flo@technet.it

 

© Didattica & Classe Plurilingue 2002