|
Insegnare litaliano L2 nella scuola pubblica: alcune riflessioni da
unesperienza
Si parla con sempre maggior insistenza
dellitaliano L2 come nuova materia di insegnamento nella scuola pubblica. Già,
perché annualmente cresce il numero degli studenti stranieri che entrano nella scuola
italiana a qualsiasi grado di studi: dalla scuola elementare a quella superiore.
Mi sembra si possa parlare di buone notizie: la
nostra società diventa sempre più multietnica e multiculturale e questo non può che
rappresentare un valore da sfruttare per le generazioni a venire.
Cosa sarà il futuro lo verificheremo, cosa è oggi
la scuola italiana per gli stranieri è problema che tocca i molti figli di immigrati che
con grande coraggio e lungimiranza provano lesperienza di costruirsi una cultura nel
nostro paese.
Sono stato chiamato a tenere un corso di italiano
per stranieri presso un Istituto Tecnico nei pressi della Stazione Termini di Roma, zona
ad alta concentrazione di immigrati. Dopo alcuni anni in cui i professori si sono trovati,
completamente privi di strumenti, ad affrontare la nuova emergenza di studenti stranieri
nelle classi, il preside ha deciso di affrontare il problema di petto organizzando un
corso di italiano per gli studenti bisognosi di imparare la lingua: quattro ore a
settimana per un totale di 70 ore nellarco dellanno.
La provenienza degli studenti era prevedibile per
quella zona, caratterizzata da forti insediamenti di flussi migratori provenienti da Cina,
Filippine e sud est asiatico in genere, Europa dellest, Est africano, Sud America.
Contemporaneamente al corso di italiano una decina
di insegnanti hanno partecipato ad una serie di incontri di alfabetizzazione
allinsegnamento dellitaliano come lingua seconda: dieci ore appena sufficienti
per cominciare a considerare linsegnamento della lingua italiana a stranieri come
una materia a tutti gli effetti.
Gli appuntamenti formativi hanno confermato il dato
che nella scuola cera una grande richiesta di formazione sui temi
delleducazione interculturale e gli insegnanti stessi sentivano di essere in molti
casi impreparati ad affrontare situazioni di classi plurilingue. Tuttavia la discussione
su una pedagogia che riesca a tener conto delle enciclopedie individuali di tutti gli
allievi risultava sì primaria e fondamentale (perché aspetto eticamente centrale), ma in
modo più propagandato che sostanziale.
Ciò che infatti risultava impellente, anche per
poter considerare nel modo più adeguato la cultura di ogni immigrato, era la possibilità
comunicativa reciproca: tra studenti e studenti e tra studenti e insegnanti. Da questa
urgenza derivava in modo naturale la mia convocazione: "tu metterai questi studenti
nelle condizioni di poter partecipare alle nostre lezioni".
Era una terapia semplice e indolore che veniva
dalla diagnosi che quei discenti erano "mancanti" di qualcosa, in sostanza
limpossibilità comunicativa si espletava nella non condivisione della conoscenza
del codice attraverso il quale si svolge la lezione, in questo caso ovviamente la lingua
italiana. Per dirla con Jakobson, mancava una componente primaria al processo di
comunicazione.
Il corso è andato bene, gli studenti hanno
partecipato con entusiasmo e hanno migliorato la loro competenza linguistica e soprattutto
comunicativa, riuscendo finalmente ad esprimere la loro personalità. Il codice ha
cominciato ad essere utilizzato con maggiore padronanza e anche i professori hanno visto
apprezzabili miglioramenti.
Nonostante ciò, sebbene i progressi fossero chiari
a tutti, alcuni colleghi hanno continuato fino alla fine a chiedermi in che modo dovessero
valutare questi studenti nelle loro specifiche materie, quanto dovessero penalizzare una
esposizione scorretta, una concordanza errata, un periodo ipotetico stravolto, ma anche un
concetto fuori tema, un silenzio ad una domanda.
Gli insegnanti di Storia o di Italiano e di ogni
altra materia in genere non sono abituati a dover fare i conti con tali mancanze. Se le
valutano errori inammissibili per gli italiani, perché non dovrebbero fare lo stesso con
gli stranieri?
Ed effettivamente sembra una deficienza
inammissibile ed assurda se ci poniamo in unottica dinsegnamento centrata
sullinsegnante.
Non è da criticare nessuno, ma è
un fatto che linsegnamento è visto principalmente come una trasmissione di sapere,
che si può fare in modi più o meno democratici, più o meno coinvolgenti, più o meno
divertenti, ma quello rimane. Per cui è ovvio che se la comunicazione è disattesa lo
studente non avrà accesso al sapere, quindi rimarrà indietro, indi per cui
presumibilmente arriverà alla fine dellanno con molti debiti formativi, se non
bocciato (1).
La scuola adotta, nella maggioranza dei casi,
spiegazioni studio sui libri di testo e verifiche (il più delle volte in forma di
colloquio o di compito in classe), ed è lampante come una siffatta lezione difficilmente
ha esito positivo su chi non padroneggia la lingua.
Questi problemi, che sono, mi preme sottolinearlo,
di prassi quotidiana, gettano gli insegnanti e gli studenti stranieri nella più totale
frustrazione facendo sentire entrambi inadeguati al proprio ruolo. E chi ha la peggio da
frustrazione e inadeguatezza sono gli studenti, che troppe volte finiscono con
labbandonare gli studi in maniera definitiva.
In tutte queste riflessioni è
stato solo soggiacente un altro aspetto che invece dovrebbe essere sottoposto ad una seria
analisi, più che mai nelle realtà di cui si sta parlando: la valutazione. Se la
soggettività e linadeguatezza dei metodi valutativi adottati nella scuola sono
sotto gli occhi di tutti quelli che si occupano di didattica, interrogazioni e compiti in
classe rappresentano ancora momenti imprescindibili di verifica e valutazione che si
dimostrano assolutamente inidonei (soprattutto) per i nostri allievi (2). I
voti che ne derivano il più delle volte non sono capiti e divengono non gocce ma
acquazzoni che fanno traboccare vasi già stracolmi.
Purtroppo non ho ricette per risolvere questi
problemi, ma per introdurre la parte finale di questo articolo vorrei citare ciò che mi
ha detto una ragazza eritrea al colloquio dingresso per il corso da me tenuto presto
lIstituto Tecnico: "Lanno scorso sono stata bocciata perché non
conoscevo litaliano. I professori parlano veloci, i libri sono difficili, gli altri
studenti ridono quando io parlo. Questanno non volevo venire, mi ha convinto mia
madre, ma se mi bocciano ancora lascio".
La scuola italiana è chiamata ad un salto di
qualità che non può essere lasciato alla buona volontà di un preside o di qualche
professore volenteroso o di una madre volitiva e fiduciosa.
E linsegnante della L2 non
può essere considerato come lunico responsabile e/o conoscitore delle competenze
che ci si può aspettare da ogni studente straniero in un qualsivoglia momento del suo
processo di apprendimento della lingua italiana. Tutto il corpo insegnante che opera nel
campo delleducazione interculturale dovrebbe poter essere in grado di sapere come
comportarsi, cosa chiedere e come valutare (3). La scommessa
è forse eccessiva, ma se non si vincerà la scuola italiana continuerà ad essere buona,
come veniva detto in un famoso film da un famoso attore, solo per chi non ne ha bisogno (4).
Carlo Guastalla
(1) Quando parliamo di lingua si fa riferimento alla comunicazione, per cui
la "lingua dellinsegnante" non si risolve nella componente verbale del
discorso (carattere linguistico) ma accoglie in sé fattori cinesici, prossemici,
performativi, pragmatici, socio-culturali che hanno eguale importanza nella elaborazione
del messaggio. Inoltre, come per il carattere linguistico, anche gli altri caratteri della
comunicazione differiscono da cultura a cultura e un gesto, un tono, un sorriso, una
distanza possono con grande facilità essere male interpretati. Questo è naturalmente
reciproco, ma cè da sottolineare che in una incomprensione, da qualsiasi parte
avvenga, chi ne fa le spese è sempre lo studente. torna al testo
(2) Nella stagione pre-sistematica la "prova orale" per eccellenza era linterrogazione,
un colloquio tra insegnante e allievo caratterizzato da:
- asimmetria: il rapporto era tipicamente quello che intercorre tra inquisitore e
inquisito, con le relative implicazioni psicoaffettive;
- scarsa strutturazione: spesso la scelta delle domande era (o almeno appariva)
casuale e dettata più dal desiderio di non ripetere le stesse cose che dalla
preoccupazione di una verifica sistematica;
- povertà sintattica e pragmatica: se linsegnante pone solo domande,
lesaminato produce solo risposte, cioè enunciati dichiarativi e con funzione quasi
esclusivamente referenziale;
- aleatorietà: per questi motivi, linterrogazione-colloquio è la prova più
esposta alleffetto di alone". (Gianfranco Porcelli, Educazione
linguistica e valutazione, Utet, Torino 1998, p. 121). torna al testo
(3) "Una maggiore diffusione della conoscenza dei principi
acquisizionali e delle caratteristiche dellitaliano L2 dovrebbe consentire, a chi
opera nel campo dellinserimento di stranieri alloglotti nella scuola e nella
società italiana, di elaborare curricola sempre più rispettosi delle dinamiche
interlinguistiche, mentali e socioculturali in cui sono coinvolti tali apprendenti".
(Marina Chini, Apprendere una seconda lingua: principi, fattori, strategie e problemi,
in Elisabetta Nigris (a cura di), Educazione Interculturale, Mondatori, Milano
1996, p. 340). torna al testo
(4) Si tratta di Silvio Orlando in "La scuola", film di Daniele Luchetti. torna al testo
Email carloguastalla@infinito.it
|
|