Eva arriva in Canada dalla Polonia nel 1959. Ha 14
anni. Il primo impatto con il Canada è del tutto negativo. Brutta la natura, brutte le
case, dentro e fuori, brutti e antipatici i compagni di scuola. Fanno scherzi scemi,
parlano di cose futili, il modo in cui passano il tempo dopo le lezioni è una barba. I
canadesi, decide, sono tutti noiosi, conformisti e senza spirito di avventura. Insomma,
nellincontro con il nuovo mondo e la nuova cultura il piacere è zero.
Però Eva, allo stesso tempo, è arrivata in Canada
con delle aspirazioni e delle mete molto ambiziose. Vuole imparare linglese, e vuole
impararlo benissimo, in tutte le sue sfumature. È una lingua colta e raffinata che
desidera imparare. Ecco perché, quando è ancora lì che muove i primi passi, trova
piatte e sgraziate espressioni come "youre welcome". Si innamora invece di
parole letterarie come "enigmatic" o "insolent". È quello
linglese che lei vuole parlare, e, anche se per il momento le sue abilità sono
minime, Eva "sente" il buon inglese, come suona, come deve suonare.
Linglese parlato dagli immigranti polacchi dellinglese ha solo il nome. Per
prima cosa, Eva si darà un gran daffare per liberarsi dal suo accento. Una cosa che ha
molto chiara, per averla imparata in Polonia, è che se per farsi capire basta usare comunque
la lingua, usarla come si deve assicura prestigio sociale. Ti eleva. Una padronanza
perfetta dellinglese, ne è convinta, sarà perciò la chiave di ogni successo.
Non è però soltanto il desiderio di imparare
linglese della élite intellettuale e artistica nordamericana a muovere Eva. Lo è
anche la sua paura di fallire. Sa che la sua famiglia conta su di lei. La povertà è per
tutti loro una minaccia reale. Cè unangoscia sottesa ai progetti di Eva:
quella di ritrovarsi a un angolo di strada e chiedere la carità. Un suo fallimento
personale li trasformerebbe tutti, per davvero, in accattoni. Paure e ambizioni qui si
ricongiungono: solo riuscendo negli studi, solo se farà sua la lingua parlata dalle
persone più colte del gruppo dominante, potrà lasciarsi alle spalle il destino incerto
di immigrata e ottenere ciò che vuole con tutte le sue forze: un posto sicuro nella
società, il rispetto degli altri.
La storia di Eva, caso non solitario nella storia
dellimmigrazione nel Nordamerica, è a lieto fine. Eva si laureerà a Harvard, in
inglese, e diventerà redattrice del NewYork Times Book Review.
Ma ecco che cosa scrive alla fine del suo secondo
anno di università: "Sono diventata ossessionata dalle parole
Non voglio
lasciare nenche unimmagine senza parole, non permetterò che niente mi passi per la
mente finché non trovo la frase giusta per acchiappare e fissare questombra
Lidea che ci siano parti della lingua che mi sfuggono mi getta un po nel
panico, come se questi vuoti fossero parti mancanti del mondo o della mia mente
come se la totalità del mondo e della mente fossero contemporanee alla totalità della
lingua
Quando scrivo, voglio usare tutte le parole che esistono, voglio ricreare,
da quelle particelle discrete che sono le parole, linterezza di una lingua
dellinfanzia che parole non aveva".
Non so se è il caso di aggiungere commenti a
questo breve frammento di storia. Non lo so, e in ogni caso non vorrei farlo ora. Diamoci
piuttosto un appuntamento. Mandateci i vostri commenti, le vostre reazioni: daremo loro
spazio nel prossimo numero. Nel frattempo, forse, chi ha letto queste righe, sentirà il
desiderio di procurarsi il libro di Eva e ascoltare interamente la sua voce.