SILVESTRO TUCCIARONE,
LINGUA NAZIONALE, DIALETTO E ITALIANO DI STRANIERI. CONTESTI
INTERAZIONALI NEL VENETO, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia 2004
Quale “lingua” si parla, oggi, nel Veneto? In quale spazio linguistico gli
immigrati stranieri, sempre più numerosi, si affacciano e maturano le loro
esperienze di vita e di lavoro? Qual è la realtà comunicativa quotidiana
nelle scuole, nei mercati, nei ritrovi di adolescenti e viceversa in un
contesto eccezionale come il carcere?
[….] Problemi fondamentali della nostra società “complessa”: la
stigmatizzazione del diverso; la forza dello stereotipo e del pregiudizio;
la distanza sociale; la comunicazione
interculturale come base del rispetto e strumento di solidarietà civile.
(Quarta di copertina)
Già il titolo, a ben
guardare, evoca nel lettore il doppio ambito con cui questo testo lo
porterà in contatto: quello della linguistica e quello della
sociolinguistica. Ma per essere più precisi lo studio di Tucciarone parte
dalla rilevazione di dati linguistici, procede analizzandoli
minuziosamente e giunge a conclusioni che proiettano il lettore nel campo
della sociolinguistica. Se dunque il punto di partenza dell’indagine di
Tucciarone è la linguistica, il suo punto di arrivo è, a nostro parere, la
sociolinguistica perché le conclusioni a cui l’autore arriva analizzando i
documenti raccolti sulla base di solidi studi teorici, conducono a
riflettere sul ruolo di certi parlanti all’interno di un certo contesto
sociale e comunicativo e su quanto il loro comportamento linguistico
incida nella definizione di tale ruolo.
Il titolo anticipa anche, come naturalmente si conviene ad ogni titolo
azzeccato, l’universo linguistico con cui lo studio di Tucciarone vuole
entrare in contatto, quello in cui lingua nazionale, dialetto e italiano
di stranieri, quasi si fondono in un unico idioma, spesso si influenzano
vicendevolmente, come risultato del loro status di lingue in
contatto.
Il panorama linguistico e sociale che si apre è quindi
caratterizzato da un’estrema vitalità e vivacità comunicativa in cui trova
spazio anche il gergo degli ambulanti (capitolo 4) che attraverso di esso
si scambiano messaggi di tipo, per così dire, “commerciale”, ed è quindi
funzionale non alla scambio di messaggi con i clienti, ma alla buona
riuscita della vendita.
Che il contesto comunicativo che fa da sfondo alla ricerca di cui il libro
rende conto, sia poi il Veneto, non sorprende vista la provenienza
dell’autore da questa regione; tuttavia viene da chiedersi se e quanto le
stesse conclusioni siano riscontrabili in altre regioni della penisola,
aprendo così al lettore un ulteriore spazio di riflessione e di
osservazione della realtà socio-comunicativa della propria regione. In
sostanza, il Veneto e le varietà linguistiche che qui sono rintracciabili
contestualizzano l’analisi di Tucciarone in un ambito preciso e del tutto
connotato, ma i risultati di questa analisi allargano i confini regionali
da cui essa muove per riverberarsi in altri spazi linguistici e sociali.
Lingua Nazionale, Dialetto e
Italiano di Stranieri è un’ opera che si
articola in una serie di saggi che prendono le mosse da altrettante
indagini sul parlato dei nativi e degli immigrati.
Nell’articolo di apertura viene analizzato il bilinguismo
consapevole (dialetto-lingua nazionale)
dei parlanti autoctoni veneti attraverso la riflessione su una serie di
dati raccolti tramite un questionario distribuito ad adulti e ragazzi
delle scuole primarie di Dolo.
Già dal secondo capitolo l’orizzonte investigativo dell’opera si allarga
per comprendere ed analizzare le ricadute del comportamento linguistico
dei nativi sull’acquisizione della lingua seconda da parte dei lavoratori
stranieri e di coloro che più avanti – nel capitolo 8 - verranno definiti
i nuovi veneti, ovvero gli
adolescenti che giunti in Italia ancora bambini, talvolta addirittura nati
sul territorio della repubblica, si sono stanziati con le famiglie nel
Veneto, studiano in scuole locali e dunque a pieno titolo dovrebbero
essere considerati una parte consistente della popolazione giovanile della
regione.
I capitoli finali sono infatti interamente dedicati a quest’ ultima
categoria di immigrati; in particolare il saggio di chiusura – il 9 -, in
cui Tucciarone passa la parola alla docente Monica Mele e alla
psicoterapeuta Maria Luisa Virgilio per discutere il caso di due fratelli
arabofoni rispettivamente di 19 e 17 anni, mette bene in evidenza le
implicazioni psico-affettive dell’acquisizione della lingua seconda nella
definizione dell’identità personale, le lacerazioni spesso
inconsapevolmente dolorose che l’adolescente immigrato si trova a dover
affrontare a causa del suo trovarsi in mezzo a due culture proprio in uno
dei momenti più delicati dell’esistenza umana e talvolta senza ricevere
dall’ambiente in cui si trova inserito l’aiuto necessario per superare
questo conflitto interiore. La parte centrale del libro, i capitoli 5, 6
e 7, è dunque interamente dedicata all’analisi del parlato degli immigrati
adulti, fotografati in vari contesti comunicativi. Fra questi ultimi
spicca il carcere, ambiente di interazione poco analizzato, ma in cui,
come si evince dalla lettura del capitolo 6, la particolare condizione del
detenuto straniero fa emergere bisogni linguistici e comunicativi del
tutto specifici e inerenti a un particolare tipo di scambio con i nativi:
l’italiano, nelle sue varietà d’uso, è qui “la lingua dell’agente che
tiene le chiavi della cella, del giudice che legge la sentenza” (pag. 81).
Il quadro che si compone dunque davanti al lettore configura una peculiare
tipologia di apprendenti che richiede al docente di lingua un’attenzione e
una professionalità del tutto specifiche: insegnare ad immigrati, che
nell’ambiente di lavoro generalmente combattono quotidianamente per
ridefinire, attraverso la competenza d’uso della L2, il loro ruolo
sociale fra pressione anticipatoria
e socializzazione anticipatoria
(capitolo 5), non è come insegnare la lingua in istituzioni private o
universitarie. L’immigrato deve anche essere messo in grado, fra
l’altro, di interagire con un ambiente spesso ostile e discriminatorio, da
cui riceve un input insufficiente e limitato all’esecuzione di un compito,
che quindi non sostiene uno sviluppo della lingua tale da permettere al
soggetto di mettere a punto un progetto di sé che tenda all’autorealizzazione.
Questo è particolarmente evidente dopo la lettura del capitolo 7, in cui
vengono esaminate le regole della cortesia.
Dall’analisi dei testi riportati appare chiaro come lo straniero,
consapevole dei propri scarsi mezzi linguistici, tenda a usare marcatori
di cortesia non morfologici, tentando comunque di rispettare, appunto,
le regole della cortesia.
Dall’altra parte il nativo sembra usarle quasi esclusivamente per
sottolineare la distanza sociale, abbandonandole quando possibile in un
presupposto tentativo di semplificazione linguistica.
Fiorenza Quercioli