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Alcuni suggerimenti per una
didattica efficace
Paolo Torresan Con questo
contributo vorrei sottoporre allattenzione dei lettori una serie di riflessioni che
sono frutto di una osservazione sul campo, di letture, di accorgimenti che provengono
dalla mia esperienza di formando presso vari enti di formazione.
1. Gestire le domande
Uscire dal seminato è un vizio di molti
insegnanti. Ad una domanda semplice dello studente, del tipo:
"Scusi, che cosa significa
"faccia"?"
la risposta è spesso eccessiva:
"Questo è un verbo, non è il sostantivo
femminile "la faccia", ma è la terza persona del congiuntivo di
"fare", è uguale per tutte e tre le persone singolari, ma è irregolare al
congiuntivo. Questo, è il congiuntivo, sai".
Succede anche il caso contrario, che si abbia cioè
una risposta stringata:
"É un congiuntivo, ma lascia
perdere: lo trattiamo più avanti".
La prima risposta è incongruente: la questione
posta dallo studente non verte infatti sulla forma ma sul significato del
termine. Lo stesso può esser detto per la seconda, con laggravante che
linsegnante risulta evasivo: oltre a non aver colto il fatto che lo studente chiede
il significato e non la natura grammaticale, compie lerrore di glissare, e così
facendo priva lo studente del suo ruolo di ricercatore, per trattarlo alla stregua di un
bambino, del tipo: "non è ora", "più tardi", "stai buono".
Saper rispondere è unarte: le parole che
usiamo rivelano se e quanta attenzione prestiamo a chi ci interroga:
"Moltissimi
insegnanti di lingua chiedono [...]: Che cosa hai fatto ieri sera? (perché
vogliono lavorare con il passato prossimo) e se lo studente risponde: Sono stato a casa
a guardare la televisione, o se dice: Ho ucciso mio padre, non importa: si
procede comunque a fare la stessa domanda: Che cosa hai fatto domenica scorsa? Per
lo studente lunico modo per ottenere un segno di interesse da parte
dellinsegnante è dire: Ho ucciso il mio padre. In questo caso
linsegnante dice: Ho ucciso...? Ho ucciso....? e lalunno, con i
suggerimenti degli altri studenti, si corregge: mio padre. E si passa alla prossima
domanda". (1)
Possiamo leggere altri vizi di
fondo nelle risposte descritte in precedenza: nella prima, il bisogno di sfoggiare un
sapere (un insegnante di lingua ha poche occasioni di farlo rispetto ad un insegnante di
filosofia o di chimica - se non appunto quando "fa" grammatica o quando parla di
cultura) (2) determina, con laumentare del numero delle parole, la
maggiore incomprensibilità del messaggio; nella seconda, il criterio del tutto personale,
da parte del docente, circa la convenienza della domanda, inibisce le future richieste
degli studenti; questi si domanderanno infatti se quello su cui desidererebbero avere una
risposta può essere chiesto o meno, e se è lecito, in quel momento della
lezione, dire: "non capisco", "cosa vuol dire?", "puoi
ripetere?"
Una risposta metodologicamente corretta alla
domanda:
"Scusi, cosa significa "faccia"?"
potrebbe essere invece:
"significa "fa""
Nel caso in cui lo studente fosse insoddisfatto,
potrebbe riformulare la domanda:
"Perché qui cè "faccia",
e non "fa""?"
E quindi linsegnante:
"Perché è un congiuntivo"
E lo studente potrebbe ancora chiedere:
"Quando si usa?"
La risposta dellinsegnante potrebbe
essere induttiva :
"Guarda il verbo che cè prima, cosa
ti fa pensare?"
o deduttiva:
"Prima cè il verbo
"credo", che esprime un dubbio",
a seconda del livello di competenza
metalinguistica dello studente.
In sostanza, solo attraverso unautodisciplina
che esige che linsegnante dia risposte pertinenti e minime, viene data allo studente
unautentica possibilità di replica, di analisi, di approfondimento. Viceversa,
linsegnante che parla sopra le righe o che congela la domanda dello studente,
ostacola lattività di ricerca dellintera classe.
2. Gestire lassenso
"Coshai fatto ieri, Ahmed?"
"Io
ho andato al sinema"
"Ah, sei andato al cinema! A vedere
cosa?"
"Aldo, Giovanni e Giacoma"
"Ah, Aldo, Giovanni e Giacomo, e
come
".
Ripetere quello che dice lo
studente (con le dovute correzioni, realizzate inconsciamente dallinsegnante, senza
però essere tematizzate) genera noia: immaginate dieci studenti intervistati a turno su
come hanno passato il fine settimana (3). In secondo luogo
linsegnante rimane sempre al vertice dello scambio: dopo Ahmed, sarà il turno di
Siby, poi Arben, e via di seguito, tutti uno scalino più sotto rispetto al docente
(poiché spetta a lui dire lultima parola), proprio come avviene
nellinterazione adulto-bambino.
È bene allora che
linsegnante si chieda quale chiave (nel senso della key psicologica di cui
parla Hymes) (4) voglia dare allinterazione con gli studenti e quale tipo di
immagine voglia far passare circa il modello di comunicazione presente in Italia (5). È ancora una volta un invito al silenzio, inteso, secondo linsegnamento
di Gattegno , come un non appropriarsi delle parole del discente (6).
3. Gestire il tempo
La parola inglese timing, riferita alla
gestione dei tempi, ha preso piede in molti linguaggi settoriali. Nellambito
dellinsegnamento essa riguarda tanto i tempi da rispettare nella pianificazione
curricolare (il fatidico "dobbiamo finire il programma", che penso sia una tra
le frasi più pronunciate dai docenti), che alla scansione delle attività durante la
lezione.
In particolare, programmare meticolosamente le
attività ha una ricaduta positiva sulla tenuta dellattenzione della classe e dà
limpressione che linsegnante sia responsabile, si prepari le lezioni e si
sappia gestire. Viceversa, se linsegnante non è in grado di tenere i ritmi, di
mediare tra la velocità di alcuni e la lentezza di altri, e di alternare momenti di
riflessione con momenti di reimpiego giocoso, nella classe si creano noiosissime sacche di
attesa.
Non cè attività o tecnica che sia immune da
un calcolo dei tempi: una drammatizzazione richiede che si stenda una scaletta di azioni e
di consegne e si preveda un tempo di realizzazione ben determinato, tanto quanto avviene
per unattività di comprensione, unanalisi morfosintattica, una riflessione
sociolinguistica ecc.
[continua]
Note
(1) Humphris, C., 1998, "Nellinsegnamento comunicativo
quanta attenzione viene posta alla comunicazione in classe?", in Insegnare una
lingua: riflessioni e proposte. Atti del 10° seminario internazionale per insegnanti di
lingua, Dilit, Roma, p. 13. torna al testo
(2) Humphris, C., 1997, "Perché
gli studenti non si impegnano di più?", in Parlare. Atti del 9° seminario
internazionale per insegnanti di lingua, Dilit, Roma, p. 195. torna al testo
(3) Sinclair, J. McH & Brazil, D., 1982, Teacher talk,
Oxford University Press, Oxford. torna al testo
(4) Gumperz, J., Hymes, D., 1972, Directions in Sociolinguistics. The Ethnography of
Communication, Holt Rinehart Wiston, New York. torna al testo
(5) Humphris, C., 1993, Sul "fare eco", Bollettino Dilit, 2, 7-10. torna al testo
(6) Gattegno, C, 1972, Teaching Foreign Languages in Schools: The Silent Way,
Educational Solutions, New York.
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