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Notizie dalla
classe plurilingue
Chiara Ghezzi e Roberta Grassi, Interazione e plurilinguismo in classe, in S. Dal
Negro e P. Molinelli (a cura di) Comunicare nella torre di Babele. Repertori
plurilingui in Italia oggi, Carocci, Roma 2002, pp. 95-122, 14,50.
Le ricerche di Ghezzi e Grassi, in questo libro
uscito di recente, ci comunicano (o ci confermano) notizie buone e meno buone. In sintesi:
gli alunni stranieri stanno rendendo un bel servizio alla scuola italiana e agli
insegnanti; la scuola e gli insegnanti non sempre rendono un bel servizio agli alunni
stranieri.
Prima di illustrare queste notizie, con un semplice
collage di citazioni seguite da qualche commento e proposta, è necessario precisare come
sono state ottenute. Le due autrici sono entrate in classi con alunni stranieri e hanno
raccolto un certo numero di esempi di parlato di insegnanti e allievi. Il loro obiettivo
era vedere se e come la presenza di alunni non italofoni modifichi linterazione in
contesto scolastico. Va sottolineato, date le dimensioni dei campioni esaminati, il
carattere qualitativo e non quantitativo delle ricerche.
Cominciamo dalle notizie meno buone. Non sono
riferite in ordine di importanza.
La netta prevalenza del "parlato
transazionale", quello che serve a trasmettere informazioni, "a
scapito degli impieghi e funzioni di tipo sociale, interpersonale ed espressivo",
tipica nella scuola, almeno dalla media in su, "rischia, dal punto di vista
dellorganizzazione didattica, di sfavorire ulteriormente gli alunni non italofoni,
poiché, se si considera la distanza culturale e sociale che spesso li separa dai nativi,
ci si rende conto di quanto i modelli interattivi dati per scontati per gli italofoni non
lo siano altrettanto per i non nativi, per i quali sarebbe invece auspicabile un
insegnamento esplicito".
"In genere, i non nativi non partecipano
alla lezione o partecipano poco, perché, nonostante largomento non sia nuovo [si
stanno qui analizzando dei momenti di "ripasso"], non hanno di fatto i mezzi
linguistici per intervenire attivamente, linsegnante non ha tempo e spazio per la
negoziazione del significato. La conclusione è che spesso linsegnante si trova
nella situazione di ignorare gli studenti stranieri".
Che agli alunni non italofoni manchino i mezzi
linguistici non è una scoperta. Anche se ancora desta in qualcuno singolari allarmi. Che
lorganizzazione del discorso scolastico si fondi su certi meccanismi di esclusione
(di altri discorsi, cioè virtualmente di almeno alcuni soggetti) è un fatto noto.
Lesclusione riguarda soggetti già esclusi (non sanno la lingua). Storia conosciuta.
Lidea "speriamo che prima o poi" anche gli esclusi (discorsi e persone)
vengano inclusi è spesso sostenuta da chi, in buona fede, non sa bene come muoversi. Non
è un buon motivo per ignorarli, gli esclusi, nel frattempo.
Che si potrebbe fare allora? E per farlo è
necessario riformare da cima a fondo la scuola?
Se il problema è che gli alunni
non italofoni sono le prime vittime della prevalenza del "parlato
transazionale", la prima cosa che viene in mente è solo dettata dal buon senso.
Proporre attività con lobiettivo di sviluppare le abilità linguistiche e le
abilità sociali. Abilità sociali sono per esempio rispettare e far rispettare i turni di
parola, assumersi o declinare responsabilità adducendo validi motivi, interrompere
educatamente, incoraggiare gli altri a esprimersi, dissentire senza aggressività,
spiegare che cosa non si è capito e farselo ripetere, ascoltare e cercare di capire
meglio le difficoltà altrui ecc. È noto che ogni cultura realizza queste strategie
conversazionali in modi diversi e con specifici esponenti linguistici. Non è una cosa
molto difficile immaginare attività di questo tipo, anche se forse un po lontana
dalle abitudini di molti insegnanti. Si può pensare per esempio a simulazioni in cui
naturalmente coinvolgere tutta la classe. Come primo passo si potrebbero allora consegnare
agli alunni dei fogli su cui si saranno scritti (magari attraverso un lavoro collettivo di
ricognizione, ricostruzione e parziale catalogazione) i principali esponenti linguistici
adeguati alle varie funzioni. Proporre quindi le simulazioni, in cui sarà consentito
consultare i repertori scritti. Successivamente si potrebbero allestire attività di
gruppo centrate su contenuti disciplinari e costruite in modo da rendere necessaria, ai
fini del loro svolgimento, lassunzione di ruoli nel gruppo e la pratica di modelli
linguistici di interazione almeno in parte familiari. Questa è un po
limpostazione promossa dal cooperative learning (su cui ci ripromettiamo di
ritornare in un prossimo numero di questo bollettino). Attività di questo tipo, almeno
nei primi tempi, avranno il limite di apparire un po artificiose e complicate,
magari più agli insegnanti che agli alunni. Probabilmente lo sono e si tratterà allora
di raffinare i meccanismi di gestione. Tuttavia, se si pensa che linsegnamento
esplicito dei modelli linguistici interazionali sia auspicabile, perché efficace ai fini
di un parlare più efficace, allora questa è una strada da percorrere (1).
Se poi il problema è che spesso gli insegnanti
ignorano chi non ha i mezzi linguistici per esprimersi, bene, allora qui la soluzione non
può essere che imporsi di prevedere delle mezze ore in cui studenti e insegnante o
studenti fra loro conversano, passano il tempo in comunicazione. Perché tanto più mi
intrattengo con interlocutori diversi da me a proposito di cose interessanti, nuove,
strane ecc., tanto più ho modo di sviluppare la mia interlingua, cioè i miei mezzi
linguistici. Così facendo, fra laltro, tutti si potranno accorgere che per capirsi
e essere capiti bisogna impegnarsi, che non ci sono solo cose ovvie o scolastiche da
dirsi, cose tutte giuste o tutte sbagliate. È anche questo un modo, forse il migliore,
per imparare ad ascoltare e ad essere ascoltati. Questo significa negoziare significati e
concetti, in maniera sempre più sottile. A maggior ragione i "momenti di
ripasso" potrebbero essere unoccasione da sfruttare in questo senso. Basterebbe
decidere di non costruirli come una verifica (ripassare in effetti non vuol dire
verificare, ma dare unaltra occasione), spesso di routine e frettolosa, in cui
ignorare gli studenti stranieri è spesso un esito inevitabile. Unalternativa è
considerarli e costruirli come un momento in cui gli allievi possano venire allo scoperto
con tutte le loro conquiste. Tali conquiste appariranno precarie lo sono, e come
potrebbero non esserlo? e deluderanno le aspettative dellinsegnante. Ma
lequazione "quello che insegno è quello che è (deve essere) imparato" è
notoriamente falsa e fallimentare. Cè poco tempo, qualcuno dirà. È vero. Ma il
tempo dovrebbe essere una variabile. Una costante certa sono la coerenza didattica e i
bisogni degli allievi.
In un gruppo di "recupero di grammatica",
"i nativi discutono sui propri errori allinterno di un lavoro di
composizione scritta svolto in precedenza, per i non nativi lattenzione è invece
incentrata sull esposizione orale di quanto narrato nella composizione:
lattività è quindi finalizzata alla pratica della lingua".
Perché negare ai non italofoni loccasione di
fare grammatica sui loro testi? Perché sottoporli a unattività artificiosa,
ingenua e vacua come "dire con le tue parole quello che hai scritto"? Che senso
ha? Si può invece fare grammatica con gli stranieri senza escluderli dal resto della
classe, (come si è cercato di mostrare varie volte in questo bollettino).
"Rispondere
oralmente per un non nativo è unattività che crea un alto livello di ansia,
poiché si tratta di unabilità estremamente complessa che richiede di prestare
attenzione a molteplici aspetti della lingua in maniera simultanea. Se a questo si
aggiunge la natura di mini esame che ha ogni risposta orale in ambito scolastico [
]
ci si rende conto di quanto linterazione con linsegnante possa risultare per
un non nativo poco rilassante e quindi poco desiderabile".
Se scrivo sapendo che dopo sarò interrogato su
quello che ho scritto, figuriamoci quanto sarò tranquillo, libero di esplorare e di
espormi, scrivendo (losservazione delle autrici si riferisce alla richiesta di
esposizione orale della composizione scritta, ma si può estendere a ogni tipo di
esposizione orale). Più in generale, è noto che parlare è più difficile che scrivere,
cè meno tempo e si devono tenere sotto controllo un mucchio di cose in più. Certo,
non è che lansia di "rispondere oralmente" passi evitando di (far)
rispondere oralmente. Questo è solo un altro modo per farla crescere. Si dovrà semmai
fare in modo che lo studente si abitui a superarla, cioè a sperimentare che può passare
la prova indenne. E sembra logico, se vogliamo dare qualche chance in più di rilassatezza
e desiderabilità, che quello che va cambiato non può che essere il contesto in cui la
prova avviene. Questa non dovrebbe più essere costruita e percepita come un miniesame.
Provare allora a chiedersi: e se lasciassi stare il "rispondere oralmente", per
mettere al suo posto il parlare a un proprio simile, il dialogare, il raccontare? Vale la
pena insistere su questo punto, a costo di ripetere cose già dette, ma sembra proprio che
molti insegnanti temano che l esprimersi liberamente produca prevalentemente
problemi, pasticci ed errori, esiti comunque incontrollabili, non misurabili, conferme
dellimpotenza dellinsegnamento. Ecco perché, mi sembra, è facile registrare
inconvenienti come questo:
"Linsegnante tende ad avere tempi di
attesa molto brevi: una domanda segue allaltra senza che ci sia sempre la reale
possibilità da parte degli studenti di rispondere [
] La ragione di ciò
potrebbe risiedere nella paura di perdere il controllo della classe oppure
nellimbarazzo che linsegnante proverebbe di fronte al silenzio e
allassenza di risposte".
Lavorare su questo eventuale imbarazzo o paura può
essere un buon modo di cominciare a cambiare le cose.
Le ore di "laboratorio", in genere
destinate allapprendimento della lingua italiana, sono spesso utilizzate anche per
ripassare contenuti già trattati in classe. In queste occasioni, "le
domande dellinsegnante diventano più chiuse e incalzanti, e si tratta in tutti i
casi di domande di esibizione ["domande di cui linsegnante conosce la
risposta e con le quali intende solo verificare le conoscenze acquisite dallo studente"],
spesso non accompagnate da unintonazione interrogativa ma piuttosto di tipo
dichiarativo. Il registro diventa più formale". Quello che accade, quando
"linteresse dellinsegnante non sembra tanto focalizzato sulluso
della lingua, quanto piuttosto sulla verifica dellacquisizione dei contenuti" è
che "tale impostazione sembra destabilizzare gli studenti che spesso non hanno
chiaro in quale contesto interazionale si stiano muovendo".
Linsegnante deve essere chiaro, con se stesso
e con gli studenti. Sapere cosa vuole ed essere coerente. Lanciare messaggi univoci. Se
così non è, il paradosso è in agguato. Come nel caso seguente.
"Lapprendimento dei contenuti
disciplinari, anche per gli studenti per i quali esso risulta realizzato in lingua seconda
(veicolare) viene accertato mediante test orali che richiedono allallievo
unespressione con mezzi linguistici non soltanto comprensibili ma anche adeguati
alle regole di genere del sottocodice della disciplina [
] Lo spostamento dal
livello referenziale a quello metalinguistico è possibile in ogni momento [
]
Lo studente stava tentando di fornire una sua risposta sufficiente a dimostrare un qualche
possesso del contenuto; il suo contributo interazionale viene però largamente ignorato in
quanto linguisticamente incompleto e inadeguato al registro richiesto dallevento
comunicativo, e lallievo viene incalzato con domande di carattere metalinguistico
alle quali non è in grado di rispondere. Non sembrano dunque [almeno in molti casi]
venire messe in atto strategie interazionali tipiche della comunicazione nativo - non
nativo che prevedono la negoziazione dei contenuti a partire da ciò che il non nativo
può comprendere-produrre".
Le autrici concludono che:
Vi è una "scarsa consapevolezza mostrata
dai docenti" della "ambiguità di fondo, nella classe plurilingue,
sul fuoco dellapprendimento (lingua o contenuti?), evidenziata ulteriormente dalla
presenza di stranieri", e quindi una difficoltà a tenere nel giusto conto
"il peso relativo che le due componenti debbono avere negli obiettivi didattici",
cioè a tenerle in qualche modo distinte.
Nelle interrogazioni, in genere, "è
palese come la richiesta stessa dellinsegnante faccia esplicito riferimento a uno
studio mnemonico su un comune testo scritto. È prevedibile che una tale impostazione
metodologica si rifletta anche linguisticamente su quanto prodotto dagli studenti,
italiani e stranieri, che effettuano strenui tentativi di ripetere a memoria brani del
testo originale, realizzando, soprattutto nel caso degli stranieri che
prevedibilmente hanno più difficoltà a con il (sotto)codice dei manuali di studio
testi agrammaticali e poco coesi, quando non incongruenti, ma di registro alto, come
vogliono le regole di genere della microlingua". Inoltre linsegnante si
produce in "una serie di riformulazioni e glosse [
] che spesso si
adatta linguisticamente a quella che ritiene essere la varietà di maggiore padronanza
dello studente". Ma spesso si nota che "lo studente non raccoglie
la proposta offerta dallinsegnante di riformulare in maniera semplificata la frase
che sta ricostruendo [
] Lalunno è incapace di slegarsi dal riferimento
al testo di partenza e insiste nel ripetere quanto memorizzato, tra laltro
imperfettamente [
] in questa oscillazione ambigua, perché mai esplicitata,
fra focus linguistico e contenutistico dellapprendimento disciplinare, lo studente [spesso
sceglie], se di scelta di può parlare, di dedicare i suoi sforzi solo (o
principalmente) alla lingua, trascurando di fatto la comprensione dei contenuti".
"Si direbbe che linsegnante consideri la mancanza di una risposta [
]
come provocata da un problema linguistico e non invece da un "buco"
informazionale, per cui sostituisce [un] espressione figurata [con una]
più letterale, spostandosi contestualmente su un registro medio, anzi colloquiale
[
] Non otterrà comunque la risposta".
Dello studio mnemonico tutto il
peggio, come si sa, è ormai stato detto. Ma è inutile ripeterlo se, per esempio, non si
guarda criticamente al concetto classico di "interrogazione", come verifica di
nozioni acquisite. Tale concetto produce studenti che vogliono attenersi "al
testo/registro che sanno essere di riferimento" e li giustifica (non sono
autolesionisti). Vale invece la pena sottolineare come anche i pur giusti sforzi
dellinsegnante di mediare linguisticamente linformazione contenuta in testi
scritti possano ottenere effetti inattesi e spiacevoli. Si è già detto dei messaggi
ambigui che spiazzano lo studente ("ma cosa vuoi da me, la lingua o i
contenuti?"). Vanno ora aggiunti i problemi che possono sorgere quando
linsegnante ricorre a parafrasi colloquiali di termini, concetti o intere
esposizioni di carattere specialistico (2).
Queste parafrasi, infatti, non garantiscono di per sé una maggiore comprensione (e non
solo perché lo studente, che cerca di tenersi stretto al suo testo mandato a memoria, non
vuole sentirci da questo orecchio). Non è detto che lo studente straniero si trovi a suo
agio con il colloquialismo (adulto) italiano, con il suo lessico e con la stessa procedura
di parafrasi che dovrebbe invece assicurare una maggiore convergenza. Problemi analoghi di
spaesamento possono sorgere anche quando si presenta oralmente un contenuto (la
spiegazione) in termini e con unorganizzazione del discorso che poi lo studente non
rintraccerà nel testo scritto. Si apre allora la strada per, almeno, un duplice tipo di
lavoro da svolgere con gli studenti, con gli strumenti tipici della glottodidattica:
guidare a comprendere sempre meglio testi scritti semispecialistici, come sono i manuali,
attraverso attività di avvicinamento ai testi e di lettura progressivamente più fini, in
cui si tenga distinto il piano concettuale-cognitivo da quello linguistico; guidare a
comprendere e produrre testi orali relativi a contenuti disciplinari (di cui
linterrogazione classica è solo un pallido esempio), attraverso per es. attività
di riformulazione, simulazioni di presentazioni, analisi di brani di parlato ecc.
Ma veniamo finalmente alle notizie buone. Quasi
tutte sono smentite almeno parziali di notizie meno buone. Come forse era prevedibile, il
buono e il cattivo coesistono.
La "violazione delle regole
conversazionali, dovuta allinterruzione da parte di un non nativo del turno
dellinsegnante con una richiesta di chiarimento, non solo è tollerata, ma viene
incoraggiata coinvolgendo anche gli studenti italofoni. Linsegnante adotta quindi
una strategia tipica del foreign talk, accettando una violazione delle regole
tipiche della conversazione asimmetrica in contesto scolastico, che viceversa condivide
con gli studenti italofoni".
"La presenza di parlanti non nativi
destabilizza lordine precostituito e la loro scarsa competenza linguistica
"obbliga" linsegnante a discostarsi dal modello interazionale tipico del
contesto scolastico e ad avvicinarsi a modelli che permettano una maggiore negoziazione
del significato".
Naturalmente si tratta di buone notizie solo se si
considerano positive la "violazione delle regole" e la "destabilizzazione
dellordine precostituito" (di quelle regole e di quellordine,
naturalmente) e si intende imparare a creare e ad attenersi a regole e ordini diversi. E,
più in generale, se si pensa la revisione del "modello asimmetrico e
transazionale" sia un bene per tutti e non un servizio emergenziale reso a pochi.
"Il processo di adattamento che
linsegnante mette in atto con i non nativi non è solo di carattere meramente
linguistico, ma coinvolge lintero processo e le diverse modalità comunicative
[
] Alle domande di esibizione tipiche della classe disciplinare si aggiungono
domande referenziali che necessitano di una negoziazione del significato".
Così facendo, forse, linsegnante sta
cominciando a considerare lo studente come qualcuno che si sforza di farsi capire e di
capire meglio gli altri, e non più solo come qualcuno che, "a domanda", sa
rispondere bene o male.
(Da qui potrebbe partire
probabilmente una riflessione sul perché gli studenti anche se gli stranieri
talora meno dei nativi "non si impegnano di più", come si lamenta
spesso, o non lo fanno quanto gli insegnanti vorrebbero. Si è visto prima quanto poco, e
a buon diritto, si impegnino per non "ripetere la lezione a pappagallo",
nonostante gli inviti in senso contrario degli insegnanti. La ragione, in quel caso, è
che di fatto li si abitua a non impegnarsi, rimarcando il prestigio assoluto del testo
scritto. La stessa logica agisce nellinsegnante che ignora chi non è
allaltezza di esprimersi come gli altri, e si estende a mio parere a varie altre
forme di "disimpegno").
"Sembrerebbe di poter
affermare che il modello di comportamento corretto e adeguato venga raggiunto prima in
eventi altamente istituzionalizzati [il riferimento è all
"interrogazione"] e che lassunzione di ruoli interazionali richiesti
sia precedente allapprendimento dei contenuti e/o allutilizzo di una adeguata
forma linguistica nellesposizione".
Anche se non è una buona notizia in senso stretto,
ma un semplice rilievo probabilmente attendibile, ciò può dare un ulteriore sostegno
alle due proposte fatte allinizio, relative allinsegnamento esplicito di
modelli interattivi e al non ignorare chi dispone di scarsi mezzi linguistici. Rendere
"istituzionali" attività e contesti di tipo diverso dallinterrogazione e
dal ripasso/verifica come accennato in precedenza potrebbe favorire un
apprendimento più rapido di comportamenti adeguati, con tutto quel che ne consegue in
termini di pratiche linguistiche e cognitive. In altre parole, non è sufficiente proporre
attività probabilmente utili, è necessario sostenerle con coerenza pedagogica.
Le buone notizie sono meno numerose, ma non meno
importanti, anche perché indicano precise controtendenze sugli stessi punti spinosi.
Sulla classe plurilingue cè ancora molto da scoprire e da discutere, come qualche
mio commento ha forse lasciato intravedere. Le ricerche di Ghezzi e Grassi offrono
indicazioni preziose agli insegnanti che vogliono capire più a fondo il proprio modo di
lavorare e come orientarsi nella ricerca di soluzioni in circostanze problematiche. Il
parlato dellinsegnante, il suo peso nella costruzione del significato e degli esiti
dellevento "lezione", è spesso la chiave per scoprire che cosa va, che
cosa non va, che cosa e come potrebbe andare meglio.
Leonardo Gandi
(1) Come suggerisce, per es., Daniela Zorzi, Imparare
a parlare in italiano: note pedagogiche. torna al testo
(2) Questo punto è spiegato bene da Fernanda Minuz, Italiano L2
e insegnamenti disciplinari: il caso della geografia, in La gestione della classe
plurilingue nella scuola dellobbligo. Atti del X Convegno Nazionale ILSA,
Firenze, 9 giugno 2001, Comune di Firenze, Firenze 2002, pp. 47-50. torna al testo
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