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Redazione:
Mariadonata Costantini  Elisabetta Jafrancesco  Leonardo Gandi
Massimo Maggini
Fiorenza Quercioli
Camilla Salvi
Annarita Zacchi

Webmaster: Leonardo Gandi

QUADRIMESTRALE A CURA DI

N. 6
maggio-agosto 2003
numeri precedenti

Insegnanti Italiano Lingua Seconda Associati


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Discussione: Saymir, Luca e l'insegnante (1)
Leonardo Gandi
[vai a interventi di S. Asti e F. Quercioli]

S., nella vicenda descritta da Fiorenza Quercioli, è un recidivo. Non risulta però che avesse già aggredito suoi compagni. È un recidivo grazie alla "cattiva fama" che lo precede. Gli albanesi: "tutti un po’ delinquenti, in fondo". L’insegnante che chiama i carabinieri, "terrorizzato", "mortalmente spaventato", ci crede, a questa nomea. È in buona fede. S. è per lui una sorta di Franti: un Pericolo, una Mina Vagante. In un istante ha deciso che andava neutralizzato. Non ci sono mezze misure, verso le mine vaganti. Non solo gli strappa il pugno di ferro di mano, chiama i carabinieri. S. è un delinquente, non è un bullo, un gradasso, non basta una lavata di capo, una sospensione.

Fiorenza Quercioli ritiene perciò la condotta dell’insegnante discriminatoria e, probabilmente non solo perché tale, ingiusta (un insegnante non dovrebbe chiamare in nessun caso i carabinieri di fronte a episodi simili).

Silvia Asti viceversa ritiene la condotta dell’insegnante giusta sotto ogni aspetto, e quindi anche non discriminatoria. Ritiene inoltre non imparziale una valutazione della condotta dell’insegnante come discriminatoria e ingiusta.

Il primo rilievo di Silvia – la condotta dell’insegnante è stata giusta sotto ogni aspetto, e quindi anche imparziale – emerge quando scrive: "Il ricorso alle forze dell'ordine è stato secondo me opportuno", "la violenza va comunque severamente punita". Tuttavia ritenere giusto sotto ogni aspetto il provvedimento preso si limita a asserire o implicare che sia stato anche imparziale, cosa che invece avrebbe bisogno di essere spiegata a parte. Silvia però non lo fa, non spiega perché secondo lei Fiorenza ha torto quando dice o suppone che il provvedimento dell’insegnante era viziato da parzialità. Ma è proprio questo il punto decisivo: Fiorenza sottolinea infatti che il comportamento dell’insegnante è stato ingiusto soprattutto perché parziale, anche se non solo per questo. Dire che atti come quelli commessi da S. devono essere "puniti severamente" (ammesso che sia condivisibile dire una cosa del genere), senza alcun riguardo per l’identità (o la nazionalità) chi li abbia commessi, non dice niente riguardo all’ipotesi (o all’affermazione) che la punizione riservata in questo caso a un atto simile sia stata imparziale o no, e dunque almeno in un senso anche giusta.

Il fatto è che non ci sono argomenti pro o contro tale ipotesi (o affermazione). Ed è per questo, probabilmente, che la discussione fra Fiorenza e Silvia lascia un po’ l’impressione di imboccare un vicolo cieco.

Infatti, quando Silvia dice o lascia intendere di respingere la tesi di Fiorenza – l’insegnante ha agito mosso da pregiudizi etnici – e, anzi, di non accettare nemmeno l’idea di Fiorenza che il problema principale sollevato dalla vicenda sia un problema di discriminazione etnica, è costretta a ricorrere ad una linea di discorso diversa.

Sfortunatamente questa linea di discorso si basa su un grossolano equivoco.

Silvia, come si è visto, muove a Fiorenza lo stesso rimprovero di parzialità da lei mosso all’insegnante. Per Silvia, ciò che dice Fiorenza può essere interpretato come richiesta di una sorta di trattamento disciplinare di favore nei riguardi di S. Scrive: "è sbagliato sentirsi moralmente obbligati ad accettare come usanze culturali (e come tali passibili della nostra comprensione) abitudini più o meno codificate in altri paesi ma assolutamente inaccettabili nel nostro". Vale a dire, certe "usanze" e "abitudini" altrui varrebbero come attenuanti di atti compiuti nella nostra società, che ci riguardano e per noi inaccettabili. Ciò, almeno nel nostro caso, è patentemente assurdo e infatti Fiorenza non ha sostenuto o implicato un’assurdità del genere. Per Fiorenza S., in quanto straniero e albanese, non aveva alcun diritto a un trattamento disciplinare di favore, per così dire; al contrario, lei reclama trattamenti disciplinari, non solo giusti ma, appunto, imparziali, cioè, in questo caso, indipendenti dalle carte di identità. Proprio questo era infatti, come ho detto, il punto del contendere. Se la presunta non imparzialità di Fiorenza dipende dal rozzo relativismo imputatole da Silvia, allora il resoconto di Fiorenza non può essere viziato da parzialità in quanto relativista, poiché anche lei respinge quel relativismo.

Silvia può dunque considerare non imparziale la prospettiva di Fiorenza – e sostenere quindi a sua volta l’imparzialità dell’insegnante – solo perché esclude perfino il sospetto che nella vicenda di S., L. e l’insegnante sia intervenuta una quasiasi forma di discriminazione, consciamente o inconsciamente motivata. Per Silvia l’insegnante ha agito come ha agito mosso da obiettivi condivisibili (la salvaguardia dell’incolumità fisica degli alunni, il rispetto della norma "non si deve usare violenza" ecc.) e non da pregiudizi etnici.

Naturalmente Silvia ha diritto di vedere così le cose. È probabile che anche l’insegnante che ha chiamato i carabinieri, se gli venisse posta la domanda (ammettiamolo, un po’ ingenua) "se S. fosse stato italiano lei avrebbe agito diversamente?" risponderebbe "che c’entra l’essere italiano o albanese?".

È impossibile replicare con argomenti a questo modo di vedere di Silvia e dell’insegnante (se rispondesse come ho immaginato). Il solo argomento può essere fornito da prove concrete, cioè da esempi di trattamenti disciplinari diversi riservati a studenti italiani in casi molto simili, ma non abbiamo prove di questo tipo (anche se Fiorenza riferisce di casi "analoghi", con protagonisti italiani, in cui la questione è stata risolta all’interno della scuola).

Per queste stesse ragioni si può tuttavia respingere con almeno un argomento il rilievo di parzialità mosso da Silvia a Fiorenza. Come Silvia ha diritto di considerare la vicenda estranea a forme di discriminazione, così Fiorenza ha diritto di considerarla come esempio certo o fortemente sospetto di discriminazione.

Se è così il disaccordo fra le due posizioni non potrebbe essere più grande. Chi ha ragione e chi torto? La risposta può dipendere solo dal fatto che le persone interessate a esprimere un giudizio dispongano di uguali e migliori informazioni sulla vicenda e siano almeno animate da sentimenti morali compatibili. Per quanto riguarda le informazioni il discorso sembra chiuso in partenza: il caso di S. è archiviato, le poche informazioni sono quelle che sono. Quanto all’aspetto psicologico, non sono sicuro che Silvia possa dirsi in sintonia con l’atteggiamento simpatetico di Fiorenza, dato che arriva a chiedersi se "il ragazzo è isolato solo perché diverso o perché ha dei comportamenti socialmente inaccettabili" e a sostenere "per me il primo passo verso l'integrazione deve essere fatto dagli immigrati". È abbastanza difficile raggiungere punti di vista comuni quando sono in gioco credenze morali.

C'è però un altro aspetto importante della vicenda e della discussione che è seguita. Forse è perfino più importante della questione "discriminazione sì/no" espressa nel disaccordo che ho cercato di chiarire. Questo aspetto è richiamato giustamente da Fiorenza: come dovrebbero essere trattati casi come quello di S e L. nella scuola? Che cosa dovrebbe fare un insegnante di fronte a casi simili? Qui, è chiaro, non c’entra nulla la nazionalità dei protagonisti. Anche in questo caso non c’è nessuna risposta ovvia. Che la scuola (e gli insegnanti che la rappresentano) sia un’agenzia educativa e formativa è in linea di principio assodato. Che educazione e formazione abbiano una parentela con il concetto di sanzione e punizione è invece almeno fortemente dubbio. Questo getta a sua volta un dubbio sull’idea che definire (giustamente) inaccettabili taluni atteggiamenti e credenze di studenti comporti automaticamente invitare a sanzioni (sospensioni, espulsioni ecc.) nei loro riguardi. Silvia invece su questo non ha dubbi, Fiorenza mi pare ne abbia qualcuno di più.

Vorrei concludere su questo punto – senza ulteriormente approfondire – riferendo un caso in parte simile a quello di S., L. e l’insegnante. L’ho letto in un’intervista a Mario Rinvolucri, insegnante di inglese, di cui traduco qui sotto i passi rilevanti.

"Intervistatrice: Ripercorrendo la tua carriera c’è qualcosa di cui particolarmente orgoglioso?
Rinvolucri: Sì […] Riguarda un ragazzo, Giovanni, un diciassettenne. Io e il collega che divideva la classe con me ci siamo accorti fino dal primo lunedì mattina che Giovanni era parecchio strano. Era una classe piccola, 7-8 studenti. Giovanni […] tanto per dare un’idea visiva, aveva una di quelle pettinature da bullo, girava tutto impettito […] e aveva una specie di adorazione fanatica per D’Annunzio, il suo eroe […] e aveva idee neofasciste su molte cose. Intellettualmente era molto dotato, ma detestava in maniera assoluta e totale l’autorità e tutte le persone che l’incarnavano. Noi due cercava di ipnotizzarci, dico sul serio. Tutti avevano paura di lui [ …] Nel giro di una settimana gli altri studenti non ne potevano più e ci hanno chiesto di farlo espellere. Sono andati dal Direttore degli studi per farlo cacciare, hanno fatto tutto quello che potevano perché lo sbattessero fuori. Quello di cui sono orgoglioso è che il mio collega e io abbiamo resistito. All’epoca avevamo una specie di gruppo di sostegno di noi colleghi, eravamo circa in quattro, che serviva per parlare dei problemi in classe […] il problema di Giovanni era enorme. Era già stato espulso da quattro o cinque scuole. I suoi genitori lo avevano evidentemente mandato da noi [in Inghilterrra] per liberarsi del "bastardo" almeno per l’estate. Una volta, durante un’attività, aveva descritto la sua stanza, a casa sua, e n’era venuto fuori un quadretto da Alcatraz, col filo spinato alla porta […] L’isolamento di quel ragazzo era tremendo. Alla fine è restato sei settimane, per quattro ha lavorato con noi, poi gli altri insegnanti ci hanno coperto di accidenti per averlo fatto restare, l’hanno "trombato" e lui se n’è andato portando via due registratori […] Ma da un certo punto di vista credo che abbiamo vinto la battaglia.
I: Non espellendolo.
R: Non espellendolo. Non accettando la provocazione. E anche trovando dei modi per farlo star bene, di tanto in tanto. Conosci Jim Wingate [un altro insegnante della scuola]. Be’, Jim allora era uno che stava piuttosto ai margini […] feci in modo di metterli un po’ insieme, Giovanni e Jim, e con Jim Giovanni faceva cose tutt’altro che dannunziane, tipo lavare i bicchieri dopo una festa.
I: Com’è possibile?
R: Perché stava con Jim. E Jim era uno che non gli stava addosso, una specie di compagno, l’unico per lui […]
I: Hai più saputo nulla di Giovanni?
R: No. Ma in fondo me l’aspettavo. Però resto orgoglioso di quello che abbiamo fatto. Sul serio"
(2).

Dopo aver letto questa storia capisco ancora meno bene che cosa siano, in una scuola, punizioni come "momento educativo". Probabilmente non è neppure possibile spiegare in che cosa possa consistere il valore educativo, per uno studente, di una sospensione o di un’espulsione da scuola, per non parlare di un "fermo di polizia".

Se accettiamo di chiamare "pensiero critico" (3) ciò il cui esercizio e sviluppo rende ragione dell’esistenza di un’istituzione come la scuola, allora l’educazione e la formazione è di esso che devono avvalersi.

L’esercizio costante del pensiero critico è sufficiente a creare nei ragazzi almeno la possibilità di uno spazio mentale per accogliere elementari punti di vista morali. Al di là di questo impegno, per quanto arduo, è più facile commettere danni che tenerli distanti. Non sarà forse in grado, l’esercizio del pensiero critico, di dissuadere definitivamente alcuni dall’assumere atteggiamenti di indifferenza a punti di vista morali, cosa peraltro che nemmeno una politica della punizione è, com’è noto, in grado di fare. Il pensiero critico ha tuttavia almeno il vantaggio di fornire un modello di che cosa sia tenere conto nei propri atteggiamenti e punti di vista di quelli altrui.

L’insegnante della storia di S. e L., "mortalmente spaventato", mosso forse da pregiudizi, poco importa, ha ridotto il gesto di S. – portarsi un pugno di ferro a scuola e estrarlo durante una lite con un compagno - a non essere che quello che è, letteralmente: una tentata aggressione. Non vede e non vuole vedere ciò che quel gesto è anche se non lo mostra: un suono di coccio rotto dall’isolamento in cui è costretto, dalla famiglia, dai compagni, dalla scuola, perché "ha lui qualcosa che non va".

Sprofondato nel suo letteralismo – l’opposto del pensiero critico – all’insegnante non è restato altro che chiamare i collodiani e tragici carabinieri, e decidere di ignorare che cosa sono le persone, che cos’è un insegnante, che cos’ è una scuola.

Nel frattempo S. non è stato arrestato, ma ha imparato molte cose "esemplari" soltanto di un clamorosa cecità dell’apparato scolastico: di conseguenza, ha "preferito" lasciare la scuola.

Note
(1) La discussione è relativa al testo di F. Quercioli L'incontro-scontro fra Saymir e Luca: tutti perdenti, nessun vincitore pubblicato nel n. 5. torna al testo
(2)The Mario Rinvolucri Interview. torna al testo
(3)
John Passmore, Insegnare ad essere critici, in Analisi logica dell’educazione (a cura di A. Granese), La Nuova Italia, Firenze 1971, pp. 241-265. torna al testo

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