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Discussione: Saymir, Luca e l'insegnante (1)
Leonardo Gandi [vai a interventi di S. Asti e F.
Quercioli]
S., nella vicenda descritta da Fiorenza Quercioli, è un recidivo. Non
risulta però che avesse già aggredito suoi compagni. È un recidivo grazie alla
"cattiva fama" che lo precede. Gli albanesi: "tutti un po
delinquenti, in fondo". Linsegnante che chiama i carabinieri,
"terrorizzato", "mortalmente spaventato", ci crede, a questa nomea. È
in buona fede. S. è per lui una sorta di Franti: un Pericolo, una Mina Vagante. In un
istante ha deciso che andava neutralizzato. Non ci sono mezze misure, verso le mine
vaganti. Non solo gli strappa il pugno di ferro di mano, chiama i carabinieri. S. è un
delinquente, non è un bullo, un gradasso, non basta una lavata di capo, una sospensione.
Fiorenza Quercioli ritiene perciò la condotta
dellinsegnante discriminatoria e, probabilmente non solo perché tale, ingiusta (un
insegnante non dovrebbe chiamare in nessun caso i carabinieri di fronte a episodi
simili).
Silvia Asti viceversa ritiene la condotta
dellinsegnante giusta sotto ogni aspetto, e quindi anche non discriminatoria.
Ritiene inoltre non imparziale una valutazione della condotta dellinsegnante come
discriminatoria e ingiusta.
Il primo rilievo di Silvia la condotta
dellinsegnante è stata giusta sotto ogni aspetto, e quindi anche imparziale
emerge quando scrive: "Il ricorso alle forze dell'ordine è stato secondo me
opportuno", "la violenza va comunque severamente punita". Tuttavia ritenere
giusto sotto ogni aspetto il provvedimento preso si limita a asserire o implicare che sia
stato anche imparziale, cosa che invece avrebbe bisogno di essere spiegata a parte. Silvia
però non lo fa, non spiega perché secondo lei Fiorenza ha torto quando dice o suppone
che il provvedimento dellinsegnante era viziato da parzialità. Ma è proprio questo
il punto decisivo: Fiorenza sottolinea infatti che il comportamento dellinsegnante
è stato ingiusto soprattutto perché parziale, anche se non solo per questo. Dire che
atti come quelli commessi da S. devono essere "puniti severamente" (ammesso che
sia condivisibile dire una cosa del genere), senza alcun riguardo per lidentità (o
la nazionalità) chi li abbia commessi, non dice niente riguardo allipotesi (o
allaffermazione) che la punizione riservata in questo caso a un atto simile sia
stata imparziale o no, e dunque almeno in un senso anche giusta.
Il fatto è che non ci sono argomenti pro o contro
tale ipotesi (o affermazione). Ed è per questo, probabilmente, che la discussione fra
Fiorenza e Silvia lascia un po limpressione di imboccare un vicolo cieco.
Infatti, quando Silvia dice o lascia intendere di
respingere la tesi di Fiorenza linsegnante ha agito mosso da pregiudizi
etnici e, anzi, di non accettare nemmeno lidea di Fiorenza che il problema
principale sollevato dalla vicenda sia un problema di discriminazione etnica, è costretta
a ricorrere ad una linea di discorso diversa.
Sfortunatamente questa linea di discorso si basa su
un grossolano equivoco.
Silvia, come si è visto, muove a Fiorenza lo
stesso rimprovero di parzialità da lei mosso allinsegnante. Per Silvia, ciò che
dice Fiorenza può essere interpretato come richiesta di una sorta di trattamento
disciplinare di favore nei riguardi di S. Scrive: "è sbagliato sentirsi moralmente
obbligati ad accettare come usanze culturali (e come tali passibili della nostra
comprensione) abitudini più o meno codificate in altri paesi ma assolutamente
inaccettabili nel nostro". Vale a dire, certe "usanze" e
"abitudini" altrui varrebbero come attenuanti di atti compiuti nella nostra
società, che ci riguardano e per noi inaccettabili. Ciò, almeno nel nostro caso, è
patentemente assurdo e infatti Fiorenza non ha sostenuto o implicato unassurdità
del genere. Per Fiorenza S., in quanto straniero e albanese, non aveva alcun diritto a un
trattamento disciplinare di favore, per così dire; al contrario, lei reclama trattamenti
disciplinari, non solo giusti ma, appunto, imparziali, cioè, in questo caso, indipendenti
dalle carte di identità. Proprio questo era infatti, come ho detto, il punto del
contendere. Se la presunta non imparzialità di Fiorenza dipende dal rozzo relativismo
imputatole da Silvia, allora il resoconto di Fiorenza non può essere viziato da
parzialità in quanto relativista, poiché anche lei respinge quel relativismo.
Silvia può dunque considerare non imparziale la
prospettiva di Fiorenza e sostenere quindi a sua volta limparzialità
dellinsegnante solo perché esclude perfino il sospetto che nella
vicenda di S., L. e linsegnante sia intervenuta una quasiasi forma di
discriminazione, consciamente o inconsciamente motivata. Per Silvia linsegnante ha
agito come ha agito mosso da obiettivi condivisibili (la salvaguardia
dellincolumità fisica degli alunni, il rispetto della norma "non si deve usare
violenza" ecc.) e non da pregiudizi etnici.
Naturalmente Silvia ha diritto di vedere così le
cose. È probabile che anche linsegnante che ha chiamato i carabinieri, se gli
venisse posta la domanda (ammettiamolo, un po ingenua) "se S. fosse stato
italiano lei avrebbe agito diversamente?" risponderebbe "che centra
lessere italiano o albanese?".
È impossibile replicare con argomenti a questo
modo di vedere di Silvia e dellinsegnante (se rispondesse come ho immaginato). Il
solo argomento può essere fornito da prove concrete, cioè da esempi di trattamenti
disciplinari diversi riservati a studenti italiani in casi molto simili, ma non abbiamo
prove di questo tipo (anche se Fiorenza riferisce di casi "analoghi", con
protagonisti italiani, in cui la questione è stata risolta allinterno della
scuola).
Per queste stesse ragioni si può tuttavia
respingere con almeno un argomento il rilievo di parzialità mosso da Silvia a Fiorenza.
Come Silvia ha diritto di considerare la vicenda estranea a forme di discriminazione,
così Fiorenza ha diritto di considerarla come esempio certo o fortemente sospetto di
discriminazione.
Se è così il disaccordo fra le due posizioni non
potrebbe essere più grande. Chi ha ragione e chi torto? La risposta può dipendere solo
dal fatto che le persone interessate a esprimere un giudizio dispongano di uguali e
migliori informazioni sulla vicenda e siano almeno animate da sentimenti morali
compatibili. Per quanto riguarda le informazioni il discorso sembra chiuso in partenza: il
caso di S. è archiviato, le poche informazioni sono quelle che sono. Quanto
allaspetto psicologico, non sono sicuro che Silvia possa dirsi in sintonia con
latteggiamento simpatetico di Fiorenza, dato che arriva a chiedersi se "il
ragazzo è isolato solo perché diverso o perché ha dei comportamenti socialmente
inaccettabili" e a sostenere "per me il primo passo verso l'integrazione deve
essere fatto dagli immigrati". È abbastanza difficile raggiungere punti di vista
comuni quando sono in gioco credenze morali.
C'è però un altro aspetto importante della
vicenda e della discussione che è seguita. Forse è perfino più importante della
questione "discriminazione sì/no" espressa nel disaccordo che ho cercato di
chiarire. Questo aspetto è richiamato giustamente da Fiorenza: come dovrebbero essere
trattati casi come quello di S e L. nella scuola? Che cosa dovrebbe fare un insegnante di
fronte a casi simili? Qui, è chiaro, non centra nulla la nazionalità dei
protagonisti. Anche in questo caso non cè nessuna risposta ovvia. Che la scuola (e
gli insegnanti che la rappresentano) sia unagenzia educativa e formativa è in linea
di principio assodato. Che educazione e formazione abbiano una parentela con il concetto
di sanzione e punizione è invece almeno fortemente dubbio. Questo getta a sua volta un
dubbio sullidea che definire (giustamente) inaccettabili taluni atteggiamenti e
credenze di studenti comporti automaticamente invitare a sanzioni (sospensioni, espulsioni
ecc.) nei loro riguardi. Silvia invece su questo non ha dubbi, Fiorenza mi pare ne abbia
qualcuno di più.
Vorrei concludere su questo punto senza
ulteriormente approfondire riferendo un caso in parte simile a quello di S., L. e
linsegnante. Lho letto in unintervista a Mario Rinvolucri, insegnante di
inglese, di cui traduco qui sotto i passi rilevanti.
"Intervistatrice:
Ripercorrendo la tua carriera cè qualcosa di cui particolarmente orgoglioso?
Rinvolucri: Sì [
] Riguarda un ragazzo, Giovanni, un diciassettenne. Io e il collega
che divideva la classe con me ci siamo accorti fino dal primo lunedì mattina che Giovanni
era parecchio strano. Era una classe piccola, 7-8 studenti. Giovanni [
] tanto per
dare unidea visiva, aveva una di quelle pettinature da bullo, girava tutto impettito
[
] e aveva una specie di adorazione fanatica per DAnnunzio, il suo eroe
[
] e aveva idee neofasciste su molte cose. Intellettualmente era molto dotato, ma
detestava in maniera assoluta e totale lautorità e tutte le persone che
lincarnavano. Noi due cercava di ipnotizzarci, dico sul serio. Tutti avevano paura
di lui [
] Nel giro di una settimana gli altri studenti non ne potevano più e ci
hanno chiesto di farlo espellere. Sono andati dal Direttore degli studi per farlo
cacciare, hanno fatto tutto quello che potevano perché lo sbattessero fuori. Quello di
cui sono orgoglioso è che il mio collega e io abbiamo resistito. Allepoca avevamo
una specie di gruppo di sostegno di noi colleghi, eravamo circa in quattro, che serviva
per parlare dei problemi in classe [
] il problema di Giovanni era enorme. Era già
stato espulso da quattro o cinque scuole. I suoi genitori lo avevano evidentemente mandato
da noi [in Inghilterrra] per liberarsi del "bastardo" almeno per lestate.
Una volta, durante unattività, aveva descritto la sua stanza, a casa sua, e
nera venuto fuori un quadretto da Alcatraz, col filo spinato alla porta [
]
Lisolamento di quel ragazzo era tremendo. Alla fine è restato sei settimane, per
quattro ha lavorato con noi, poi gli altri insegnanti ci hanno coperto di accidenti per
averlo fatto restare, lhanno "trombato" e lui se nè andato portando
via due registratori [
] Ma da un certo punto di vista credo che abbiamo vinto la
battaglia.
I: Non espellendolo.
R: Non espellendolo. Non accettando la provocazione. E anche trovando dei modi per farlo
star bene, di tanto in tanto. Conosci Jim Wingate [un altro insegnante della scuola].
Be, Jim allora era uno che stava piuttosto ai margini [
] feci in modo di
metterli un po insieme, Giovanni e Jim, e con Jim Giovanni faceva cose
tuttaltro che dannunziane, tipo lavare i bicchieri dopo una festa.
I: Comè possibile?
R: Perché stava con Jim. E Jim era uno che non gli stava addosso, una specie di compagno,
lunico per lui [
]
I: Hai più saputo nulla di Giovanni?
R: No. Ma in fondo me laspettavo. Però resto orgoglioso di quello che abbiamo
fatto. Sul serio" (2).
Dopo aver letto questa
storia capisco ancora meno bene che cosa siano, in una scuola, punizioni come
"momento educativo". Probabilmente non è neppure possibile spiegare in che cosa
possa consistere il valore educativo, per uno studente, di una sospensione o di
unespulsione da scuola, per non parlare di un "fermo di polizia".
Se accettiamo di chiamare
"pensiero critico" (3) ciò il cui esercizio e sviluppo
rende ragione dellesistenza di unistituzione come la scuola, allora
leducazione e la formazione è di esso che devono avvalersi.
Lesercizio costante del pensiero critico è
sufficiente a creare nei ragazzi almeno la possibilità di uno spazio mentale per
accogliere elementari punti di vista morali. Al di là di questo impegno, per quanto
arduo, è più facile commettere danni che tenerli distanti. Non sarà forse in grado,
lesercizio del pensiero critico, di dissuadere definitivamente alcuni
dallassumere atteggiamenti di indifferenza a punti di vista morali, cosa peraltro
che nemmeno una politica della punizione è, comè noto, in grado di fare. Il
pensiero critico ha tuttavia almeno il vantaggio di fornire un modello di che cosa sia
tenere conto nei propri atteggiamenti e punti di vista di quelli altrui.
Linsegnante della storia di S. e L.,
"mortalmente spaventato", mosso forse da pregiudizi, poco importa, ha ridotto il
gesto di S. portarsi un pugno di ferro a scuola e estrarlo durante una lite con un
compagno - a non essere che quello che è, letteralmente: una tentata aggressione. Non
vede e non vuole vedere ciò che quel gesto è anche se non lo mostra: un suono di coccio
rotto dallisolamento in cui è costretto, dalla famiglia, dai compagni, dalla
scuola, perché "ha lui qualcosa che non va".
Sprofondato nel suo letteralismo
lopposto del pensiero critico allinsegnante non è restato altro che
chiamare i collodiani e tragici carabinieri, e decidere di ignorare che cosa sono le
persone, che cosè un insegnante, che cos è una scuola.
Nel frattempo S. non è stato arrestato, ma ha
imparato molte cose "esemplari" soltanto di un clamorosa cecità
dellapparato scolastico: di conseguenza, ha "preferito" lasciare la
scuola.
Note
(1) La discussione è relativa al testo di F.
Quercioli L'incontro-scontro fra Saymir e
Luca: tutti perdenti, nessun vincitore pubblicato nel n. 5. torna al testo
(2)The
Mario Rinvolucri Interview. torna al testo
(3) John Passmore, Insegnare ad essere critici,
in Analisi logica delleducazione (a cura di A. Granese), La Nuova Italia,
Firenze 1971, pp. 241-265. torna
al testo
[vai a interventi di S. Asti e F.
Quercioli]
Email leonardogandi@libero.it
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