La storia di Saymir e Luca, pubblicata nello scorso numero di questo
bollettino, ha aperto un certo dibattito fra chi scrive e una lettrice che mi ha indotto
ad una riflessione ulteriore sullaccaduto. Sembra infatti che i temi-dilemmi
proposti dalla collega, ben lungi dal trovare risposte definitive, possano però rivestire
un qualche interesse per tutti coloro che operano in classi plurilingui.
Fino a che punto certi comportamenti estremi
come episodi di violenza possono essere capiti? Come nasce uno stereotipo e quando
questo sconfina nel pregiudizio? Qual è o meglio: dovrebbe essere - il compito di
noi italiani nel processo di integrazione dei cittadini stranieri?
Su queste questioni si è cercato di riflettere e
nel proporvi di seguito le mie opinioni, vi invito a considerarle piccoli input per
altre indagini e considerazioni che mi auguro possano venire proprio da voi lettori.
La lettrice che mi ha scritto dopo aver letto la
storia di Luca e Saymir dichiara che secondo lei [è sbagliato] sentirsi
moralmente obbligati ad accettare come usanze culturali (e come tali passibili della
nostra comprensione) abitudini più o meno codificate in altri paesi, ma assolutamante
inaccettabili nel nostro.
Losservazione della collega richiama innanzi
tutto la distinzione operata da Paolo E. Balboni in ambito glottodidattico e in merito
alla comunicazione interculturale, fra cultura, concetto mutuato
dallantropologia culturale di Claude Lévi-Strauss, e civiltà. Secondo
questa teoria lo ricordiamo brevemente - la prima, la cultura, è basata sui
bisogni di natura, fornisce a un popolo dei modelli di comportamento che costituendo
appunto risposte a tali bisogni, rendono ogni cultura di per sé degna e meritevole di
riconoscimento e di rispetto. La seconda, la civiltà, invece riguarda quei modelli
culturali che allinterno della storia di un popolo sono venuti ad assumere le
connotazioni di valori, per cui si è disposti a lottare per salvaguardare certi
valori appunto come il pacifismo e il rifiuto della violenza nel nostro
caso, quasi fosse un modo per reiterare la condanna di un passato non troppo remoto in cui
per buona parte dei nostri connazionali (anche se non per tutti) luso della
violenza, in ogni tipo di relazione umana, era ammesso e comunemente accettato.
A mio avviso, la vicenda dei due adolescenti non
pone però solo la questione se si debba o no accettare episodi di violenza, ma come
questi debbano essere trattati allinterno dellistituzione scolastica, che (non
dobbiamo dimenticarlo) è la principale agenzia formatrice. Qui non si discute sul fatto
che la violenza debba essere sanzionata come comportamento inaccettabile: questo è
evidente. Si cerca però di capire quale sia latteggiamento che la scuola deve
tenere per fare in modo che la punizione non sia fine a sé stessa, ma un momento
educativo per chi ha compiuto la violenza, per chi lha ricevuta e per chi
come nel caso nostro ha assistito più o meno complice o istigatore
allesplodere dei fatti. Se Saymir non fosse stato albanese, ma un autoctono,
sarebbero stati chiamati comunque i Carabinieri per dirimere la lite nel modo esemplare
che la collega auspica si usi nelle scuole italiane in situazioni del genere? E qual è il
significato dellintervento delle forze dellordine, per altro richiesto dalla
scuola nella persona di un suo insegnante, allinterno del discorso educativo che
quellistituto scolastico sta portando avanti? Questi sono gli interrogativi che già
nellarticolo precedente mi sono posta insieme agli insegnanti che mi hanno
raccontato lepisodio, e su cui credo convenga riflettere ancora.
La mia impressione è che larrivo dei
militari dellArma nellIstituto scolastico in questione, abbia sottolineato e
rafforzato la diversità fra Saymir e Luca come rappresentanti di due differenti
etnie. Non sono infatti sicura che Saymir abbia ricevuto lo stesso trattamento che avrebbe
ricevuto Luca, se si fosse trovato nella stessa posizione del ragazzo albanese,
semplicemente perché ben prima dellarrivo di Saymir e di altri coetanei albanesi,
nella scuola è arrivata la cattiva fama che accompagna il suo popolo. Il confronto fra le
due culture è diventato scontro nel momento in cui due atteggiamenti (il rifiuto di ogni
violenza da un lato e il ricorso alla violenza come mezzo per farsi giustizia
dallaltro) sono entrati in collisione perché nella cultura italiana la negazione di
ogni rivalsa violenta, grazie anche alle vicende storiche del nostro paese, è divenuta un
valore in difesa del quale siamo pronti ad indignarci e a lottare. Da questo
raffronto Saymir è uscito come un "criminale", Luca come un
"martire". Carnefice il primo, in quanto appartenente al gruppo di
immigrati-invasori che una certa propaganda vuole presentare come disturbatori della
quiete pubblica, inquinatori della cultura, ladri di posti di lavoro; vittima, il secondo,
succube nella stessa visione distorta dellimmigrazione, di tutto quanto detto sopra.
Entrambi i ragazzi avevano in realtà qualcosa da
imparare che la scuola ha fallito di insegnare. Se è vero, come asserito da compagni e
docenti, che Saymir era stato oggetto di ripetuti dileggi da parte dei compagni nativi,
Luca e con lui gli altri ragazzi italiani della classe dovevano imparare che
comportamenti come questo possono scatenare in chi li riceve reazioni spiacevoli, mentre
il giovane albanese insieme agli altri suoi connazionali presenti
nellIstituto - doveva capire che nel nuovo ambiente in cui si trova la violenza non
è in nessun caso una risposta accettabile.
Messa così può sembrare una risposta banale,
forse persino un po retorica; a ben guardare, dietro questa "lezione"
cè però un altro valore, che definirei interculturale perché pone
tutti sullo stesso livello: il rispetto reciproco. Non la tolleranza, non il pietismo che
ci presenta limmigrato come un essere buono ma rozzo e incivile da capire in attesa
che diventi "come noi", ma il rispetto lo ripeto perché a nessuno di noi
piacerebbe essere tollerati, in qualche modo sopportati, ma finché possibile
accuratamente evitati, né vorremmo essere considerati dei bravi inferiori solo perché
diversi.
Sostiene ancora la lettrice e collega: Chi viene
nel nostro paese deve sapere che ci sono delle leggi che vanno rispettate e questo ancora
di più nella scuola, dove i nostri ragazzi hanno bisogno di esempi e di chiarezza, oltre
che di tutela. Allora senza dubbio lavoriamo su di loro affinché accettino e rispettino
persone diverse, ma insegniamogli che certe cose sono comunque inammissibili e che
portando un pugno di ferro in classe non ce la si può cavare con una lavata di testa del
Preside. Anche se non si è italiani.
A parte il fatto che, come ho chiarito poco sopra,
nella situazione in esame abbiamo a che vedere con dei valori termine che in
questa accezione rimanda alla morale piuttosto che con delle leggi
concetto vagamente burocratico nella sua connotazione giuridica -, è chiaro e scontato
che tali affermazioni ci trovano tutti daccordo. Tuttavia quello che colpisce in
questo stralcio è proprio lultima frase: anche se non si è italiani.
Perché viene da chiedersi si dovrebbe ricevere un trattamento diverso, più
permissivo, più comprensivo sembra se non si è italiani? Ho già
detto in un articolo, a cui rimando, apparso sul numero 2 di questo bollettino, qual è la
mia opinione al riguardo: bisogna fare in modo che tutti (nativi e immigrati) rispettino
le stesse regole, quelle che permettono alla struttura scolastica di funzionare e di
assolvere al suo scopo formativo. Quello che tuttavia ho cercato fin qui di indicare come
una colpevole carenza dellIstituto in questione, è proprio il fatto che Saymir
abbia ricevuto un trattamento diverso in quanto straniero e albanese. Mi sarebbe
piaciuto molto di più se fosse stato punito come un italiano.
Laffermazione della lettrice potrebbe
suggerire che lei sia stata testimone e mi corregga lei stessa se sbaglio - di
episodi in cui agli immigrati è stato riservato un trattamento più indulgente riguardo
al rispetto delle regole, proprio in quanto immigrati, riflettendo dunque una critica, che
per altro condivido, allatteggiamento buonista e pietistico descritto poco sopra.
Io ritengo invece che Saymir sia stato vittima di
uno stereotipo, o peggio ancora di un pregiudizio e che proprio questo abbia impedito
allinsegnante intervenuto di considerarlo semplicemente come qualunque altro
allievo, come un italiano, appunto. Per chiarire meglio questo concetto converrà
ricordare che lo stereotipo, di per sé, non è né negativo né positivo; esso è solo
una generalizzazione che serve per dare una prima interpretazione di ciò che non
conosciamo in modo da non sentirsi troppo destabilizzati dalla diversità con cui entriamo
in contatto. Ma quando lo stereotipo diventa un giudizio di valore, in genere negativo,
allora ci troviamo di fronte ad un pregiudizio, che molto spesso impedisce un rapporto
dialettico e costruttivo fra popoli. Saymir viene giudicato immediatamente un pericoloso
delinquente, non tanto perché fra le sue mani compare un oggetto contundente, ma perché
il possesso di questo oggetto viene interpretato alla luce della sua nazionalità di
origine e di un pregiudizio che la riguarda: tutti gli albanesi sono disonesti e violenti,
non si limitano a minacciare, colpiscono per stabilire con la forza le loro ragioni, non
ci pensano due volte a stendere qualcuno. Di un ragazzo italiano si sarebbe probabilmente
pensato, nella stessa situazione, che volesse fare un po il gradasso, tentando di
intimorire gli avversari, per cui probabilmente lo si sarebbe disarmato e opportunamente
sanzionato facendo appello agli organi di potere interni alla scuola. Forse Saymir non
voleva semplicemente spaventare il suo rivale e con questultimo tutti gli
altri ragazzi autoctoni che si prendevano gioco di lui -, forse voleva piuttosto
vendicarsi dei torti subiti. È possibile, eppure, anche in questa eventualità, Luca e
Saymir (e i loro compagni, di qualunque nazionalità essi fossero) avevano qualcosa da
imparare: al di là della vendetta personale, ci sono altri modi più civili per
ristabilire la giustizia.
La collega spiega poi in un messaggio successivo
quanto sia importante il ruolo della famiglia degli allievi nel portare avanti il progetto
educativo delle scuole e come, quando la famiglia è latitante, tutto diventi più
difficile. Anche in questo caso sono perfettamente daccordo con lei, solo che mi
viene ancora una volta da chiedermi che cosa farebbe o di fatto fa la
scuola quando un suo alunno di qualunque ordine e grado, di qualunque provenienza
geografica, mostra una qualche forma di disagio che mette tutti in pericolo e non riesce a
raggiungere o anche solo a dialogare con la famiglia del ragazzo? Lo abbandona a se
stesso, chiama le forze dellordine o un assistente sociale o chi altro? La domanda
è retorica, per cui la risposta è già di per sé scontata.
E una famiglia alle spalle può rappresentare una
garanzia contro linsorgere negli adolescenti di comportamenti deviati e devianti?
Purtroppo in più di un caso lesperienza ha dimostrato che non sempre una famiglia
attenta e partecipe riesce a indirizzare i ragazzi nel migliore dei modi.
Il primo passo verso lintegrazione deve
essere fatto dagli immigrati dice la lettrice al termine delle sue
considerazioni. A questo proposito vorrei ricordare che nellottica della pedagogia
interculturale è il gruppo dominante noi, gli italiani che dovrebbe creare
le condizioni perché si apra un dialogo fra i gruppi etnici e le culture presenti nella
scuola come microcosmo sociale. Lintegrazione degli immigrati dovrebbe dunque
partire dagli autoctoni, piuttosto che dagli immigrati stessi, che quindi non dovrebbero
semplicisticamente adeguarsi per integrarsi nel nostro assetto socio-culturale.
Integrazione non significa assimilazione né tanto meno omologazione, ma rispetto e
interesse verso le differenze che ogni cultura porta con sé.
La conoscenza della cultura di origine dei nostri
allievi può aiutarci a capire certi comportamenti collocandoli nella giusta luce, ma
questo non significa mera accettazione fine a se stessa, né da una parte né
dallaltra. Questo è solo il punto di partenza per iniziare un dialogo in cui le
differenze vengono salvaguardate e garantite nel rispetto reciproco.
No alla violenza quindi, lo ribadisco ancora una
volta. Anche noi italiani abbiamo avuto bisogno di passare attraverso certi comportamenti
per condannarli e rifiutarli.