Fai conoscere questo bollettino a colleghi e amici.

sunbul3d.gif (118 byte)sunbul3d.gif (118 byte)sunbul3d.gif (118 byte)

Se vuoi ricevere un avviso a ogni nuova uscita del bollettino clicca qui.

sunbul3d.gif (118 byte)sunbul3d.gif (118 byte)sunbul3d.gif (118 byte)

Redazione:
Mariadonata Costantini  Elisabetta Jafrancesco  Leonardo Gandi
Massimo Maggini
Fiorenza Quercioli
Camilla Salvi
Annarita Zacchi

Webmaster: Leonardo Gandi

QUADRIMESTRALE A CURA DI

N. 6
maggio-agosto 2003
numeri precedenti

Insegnanti Italiano Lingua Seconda Associati


blank.gif (43 byte)
blank.gif (43 byte)

Discussione: Saymir, Luca e l'insegnante (1)
Fiorenza Quercioli
[vai a interventi di S. Asti e L. Gandi]

La storia di Saymir e Luca, pubblicata nello scorso numero di questo bollettino, ha aperto un certo dibattito fra chi scrive e una lettrice che mi ha indotto ad una riflessione ulteriore sull’accaduto. Sembra infatti che i temi-dilemmi proposti dalla collega, ben lungi dal trovare risposte definitive, possano però rivestire un qualche interesse per tutti coloro che operano in classi plurilingui.

Fino a che punto certi comportamenti estremi – come episodi di violenza – possono essere capiti? Come nasce uno stereotipo e quando questo sconfina nel pregiudizio? Qual è – o meglio: dovrebbe essere - il compito di noi italiani nel processo di integrazione dei cittadini stranieri?

Su queste questioni si è cercato di riflettere e nel proporvi di seguito le mie opinioni, vi invito a considerarle piccoli input per altre indagini e considerazioni che mi auguro possano venire proprio da voi lettori.

La lettrice che mi ha scritto dopo aver letto la storia di Luca e Saymir dichiara che secondo lei [è sbagliato] sentirsi moralmente obbligati ad accettare come usanze culturali (e come tali passibili della nostra comprensione) abitudini più o meno codificate in altri paesi, ma assolutamante inaccettabili nel nostro.

L’osservazione della collega richiama innanzi tutto la distinzione operata da Paolo E. Balboni in ambito glottodidattico e in merito alla comunicazione interculturale, fra cultura, concetto mutuato dall’antropologia culturale di Claude Lévi-Strauss, e civiltà. Secondo questa teoria – lo ricordiamo brevemente - la prima, la cultura, è basata sui bisogni di natura, fornisce a un popolo dei modelli di comportamento che costituendo appunto risposte a tali bisogni, rendono ogni cultura di per sé degna e meritevole di riconoscimento e di rispetto. La seconda, la civiltà, invece riguarda quei modelli culturali che all’interno della storia di un popolo sono venuti ad assumere le connotazioni di valori, per cui si è disposti a lottare per salvaguardare certi valori – appunto – come il pacifismo e il rifiuto della violenza nel nostro caso, quasi fosse un modo per reiterare la condanna di un passato non troppo remoto in cui per buona parte dei nostri connazionali (anche se non per tutti) l’uso della violenza, in ogni tipo di relazione umana, era ammesso e comunemente accettato.

A mio avviso, la vicenda dei due adolescenti non pone però solo la questione se si debba o no accettare episodi di violenza, ma come questi debbano essere trattati all’interno dell’istituzione scolastica, che (non dobbiamo dimenticarlo) è la principale agenzia formatrice. Qui non si discute sul fatto che la violenza debba essere sanzionata come comportamento inaccettabile: questo è evidente. Si cerca però di capire quale sia l’atteggiamento che la scuola deve tenere per fare in modo che la punizione non sia fine a sé stessa, ma un momento educativo per chi ha compiuto la violenza, per chi l’ha ricevuta e per chi – come nel caso nostro – ha assistito più o meno complice o istigatore all’esplodere dei fatti. Se Saymir non fosse stato albanese, ma un autoctono, sarebbero stati chiamati comunque i Carabinieri per dirimere la lite nel modo esemplare che la collega auspica si usi nelle scuole italiane in situazioni del genere? E qual è il significato dell’intervento delle forze dell’ordine, per altro richiesto dalla scuola nella persona di un suo insegnante, all’interno del discorso educativo che quell’istituto scolastico sta portando avanti? Questi sono gli interrogativi che già nell’articolo precedente mi sono posta insieme agli insegnanti che mi hanno raccontato l’episodio, e su cui credo convenga riflettere ancora.

La mia impressione è che l’arrivo dei militari dell’Arma nell’Istituto scolastico in questione, abbia sottolineato e rafforzato la diversità fra Saymir e Luca come rappresentanti di due differenti etnie. Non sono infatti sicura che Saymir abbia ricevuto lo stesso trattamento che avrebbe ricevuto Luca, se si fosse trovato nella stessa posizione del ragazzo albanese, semplicemente perché ben prima dell’arrivo di Saymir e di altri coetanei albanesi, nella scuola è arrivata la cattiva fama che accompagna il suo popolo. Il confronto fra le due culture è diventato scontro nel momento in cui due atteggiamenti (il rifiuto di ogni violenza da un lato e il ricorso alla violenza come mezzo per farsi giustizia dall’altro) sono entrati in collisione perché nella cultura italiana la negazione di ogni rivalsa violenta, grazie anche alle vicende storiche del nostro paese, è divenuta un valore in difesa del quale siamo pronti ad indignarci e a lottare. Da questo raffronto Saymir è uscito come un "criminale", Luca come un "martire". Carnefice il primo, in quanto appartenente al gruppo di immigrati-invasori che una certa propaganda vuole presentare come disturbatori della quiete pubblica, inquinatori della cultura, ladri di posti di lavoro; vittima, il secondo, succube nella stessa visione distorta dell’immigrazione, di tutto quanto detto sopra.

Entrambi i ragazzi avevano in realtà qualcosa da imparare che la scuola ha fallito di insegnare. Se è vero, come asserito da compagni e docenti, che Saymir era stato oggetto di ripetuti dileggi da parte dei compagni nativi, Luca – e con lui gli altri ragazzi italiani della classe – dovevano imparare che comportamenti come questo possono scatenare in chi li riceve reazioni spiacevoli, mentre il giovane albanese – insieme agli altri suoi connazionali presenti nell’Istituto - doveva capire che nel nuovo ambiente in cui si trova la violenza non è in nessun caso una risposta accettabile.

Messa così può sembrare una risposta banale, forse persino un po’ retorica; a ben guardare, dietro questa "lezione" c’è però un altro valore, che definirei interculturale perché pone tutti sullo stesso livello: il rispetto reciproco. Non la tolleranza, non il pietismo che ci presenta l’immigrato come un essere buono ma rozzo e incivile da capire in attesa che diventi "come noi", ma il rispetto – lo ripeto perché a nessuno di noi piacerebbe essere tollerati, in qualche modo sopportati, ma finché possibile accuratamente evitati, né vorremmo essere considerati dei bravi inferiori solo perché diversi.

Sostiene ancora la lettrice e collega: Chi viene nel nostro paese deve sapere che ci sono delle leggi che vanno rispettate e questo ancora di più nella scuola, dove i nostri ragazzi hanno bisogno di esempi e di chiarezza, oltre che di tutela. Allora senza dubbio lavoriamo su di loro affinché accettino e rispettino persone diverse, ma insegniamogli che certe cose sono comunque inammissibili e che portando un pugno di ferro in classe non ce la si può cavare con una lavata di testa del Preside. Anche se non si è italiani.

A parte il fatto che, come ho chiarito poco sopra, nella situazione in esame abbiamo a che vedere con dei valori – termine che in questa accezione rimanda alla morale – piuttosto che con delle leggi – concetto vagamente burocratico nella sua connotazione giuridica -, è chiaro e scontato che tali affermazioni ci trovano tutti d’accordo. Tuttavia quello che colpisce in questo stralcio è proprio l’ultima frase: anche se non si è italiani. Perché – viene da chiedersi – si dovrebbe ricevere un trattamento diverso, più permissivo, più comprensivo – sembra – se non si è italiani? Ho già detto in un articolo, a cui rimando, apparso sul numero 2 di questo bollettino, qual è la mia opinione al riguardo: bisogna fare in modo che tutti (nativi e immigrati) rispettino le stesse regole, quelle che permettono alla struttura scolastica di funzionare e di assolvere al suo scopo formativo. Quello che tuttavia ho cercato fin qui di indicare come una colpevole carenza dell’Istituto in questione, è proprio il fatto che Saymir abbia ricevuto un trattamento diverso in quanto straniero e albanese. Mi sarebbe piaciuto molto di più se fosse stato punito come un italiano.

L’affermazione della lettrice potrebbe suggerire che lei sia stata testimone – e mi corregga lei stessa se sbaglio - di episodi in cui agli immigrati è stato riservato un trattamento più indulgente riguardo al rispetto delle regole, proprio in quanto immigrati, riflettendo dunque una critica, che per altro condivido, all’atteggiamento buonista e pietistico descritto poco sopra.

Io ritengo invece che Saymir sia stato vittima di uno stereotipo, o peggio ancora di un pregiudizio e che proprio questo abbia impedito all’insegnante intervenuto di considerarlo semplicemente come qualunque altro allievo, come un italiano, appunto. Per chiarire meglio questo concetto converrà ricordare che lo stereotipo, di per sé, non è né negativo né positivo; esso è solo una generalizzazione che serve per dare una prima interpretazione di ciò che non conosciamo in modo da non sentirsi troppo destabilizzati dalla diversità con cui entriamo in contatto. Ma quando lo stereotipo diventa un giudizio di valore, in genere negativo, allora ci troviamo di fronte ad un pregiudizio, che molto spesso impedisce un rapporto dialettico e costruttivo fra popoli. Saymir viene giudicato immediatamente un pericoloso delinquente, non tanto perché fra le sue mani compare un oggetto contundente, ma perché il possesso di questo oggetto viene interpretato alla luce della sua nazionalità di origine e di un pregiudizio che la riguarda: tutti gli albanesi sono disonesti e violenti, non si limitano a minacciare, colpiscono per stabilire con la forza le loro ragioni, non ci pensano due volte a stendere qualcuno. Di un ragazzo italiano si sarebbe probabilmente pensato, nella stessa situazione, che volesse fare un po’ il gradasso, tentando di intimorire gli avversari, per cui probabilmente lo si sarebbe disarmato e opportunamente sanzionato facendo appello agli organi di potere interni alla scuola. Forse Saymir non voleva semplicemente spaventare il suo rivale – e con quest’ultimo tutti gli altri ragazzi autoctoni che si prendevano gioco di lui -, forse voleva piuttosto vendicarsi dei torti subiti. È possibile, eppure, anche in questa eventualità, Luca e Saymir (e i loro compagni, di qualunque nazionalità essi fossero) avevano qualcosa da imparare: al di là della vendetta personale, ci sono altri modi più civili per ristabilire la giustizia.

La collega spiega poi in un messaggio successivo quanto sia importante il ruolo della famiglia degli allievi nel portare avanti il progetto educativo delle scuole e come, quando la famiglia è latitante, tutto diventi più difficile. Anche in questo caso sono perfettamente d’accordo con lei, solo che mi viene ancora una volta da chiedermi che cosa farebbe – o di fatto fa – la scuola quando un suo alunno di qualunque ordine e grado, di qualunque provenienza geografica, mostra una qualche forma di disagio che mette tutti in pericolo e non riesce a raggiungere o anche solo a dialogare con la famiglia del ragazzo? Lo abbandona a se stesso, chiama le forze dell’ordine o un assistente sociale o chi altro? La domanda è retorica, per cui la risposta è già di per sé scontata.

E una famiglia alle spalle può rappresentare una garanzia contro l’insorgere negli adolescenti di comportamenti deviati e devianti? Purtroppo in più di un caso l’esperienza ha dimostrato che non sempre una famiglia attenta e partecipe riesce a indirizzare i ragazzi nel migliore dei modi.

Il primo passo verso l’integrazione deve essere fatto dagli immigrati – dice la lettrice al termine delle sue considerazioni. A questo proposito vorrei ricordare che nell’ottica della pedagogia interculturale è il gruppo dominante – noi, gli italiani – che dovrebbe creare le condizioni perché si apra un dialogo fra i gruppi etnici e le culture presenti nella scuola come microcosmo sociale. L’integrazione degli immigrati dovrebbe dunque partire dagli autoctoni, piuttosto che dagli immigrati stessi, che quindi non dovrebbero semplicisticamente adeguarsi per integrarsi nel nostro assetto socio-culturale. Integrazione non significa assimilazione né tanto meno omologazione, ma rispetto e interesse verso le differenze che ogni cultura porta con sé.

La conoscenza della cultura di origine dei nostri allievi può aiutarci a capire certi comportamenti collocandoli nella giusta luce, ma questo non significa mera accettazione fine a se stessa, né da una parte né dall’altra. Questo è solo il punto di partenza per iniziare un dialogo in cui le differenze vengono salvaguardate e garantite nel rispetto reciproco.

No alla violenza quindi, lo ribadisco ancora una volta. Anche noi italiani abbiamo avuto bisogno di passare attraverso certi comportamenti per condannarli e rifiutarli.

Nota
(1) La discussione è relativa al testo di F. Quercioli L'incontro-scontro fra Saymir e Luca: tutti perdenti, nessun vincitore pubblicato nel n. 5.
torna al testo

[vai a interventi di S. Asti e L. Gandi]

Email flo@technet.it